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Il teatro che sfida la gravità (della violenza): “Battlefield” di Peter Brook

Si prova come un brivido lungo la schiena nel sentirsi chiamati a raccontare il lavoro di uno degli storici maestri della ricerca teatrale, Peter Brook, e in particolare un grande “classico” del suo repertorio come il “Mahabharata” – ammesso che possa definirsi “classico” ciò che classico non è, ma che ha assunto il valore esemplificativo di una visione di sintesi della realtà attraverso un linguaggio – di cui “Battlefield”, da poco passato per la capitale sul palcoscenico del Teatro Argentina, e in arrivo prossimamente (il 24 e il 25 maggio) al Teatro della Pergola di Firenze e poi al Teatro Storchi di Modena (29 e 30 maggio), rappresenta una brevissima riduzione a fronte della durata della versione originale, datata 1985, di nove ore. Ai tempi, la rappresentazione di uno dei più importanti poemi epici indiani apparve come una sfida, un evento dalla portata rivoluzionaria di cui non rende abbastanza bene l’idea la miniserie televisiva che girò lo stesso Brook nel 1989.brook2
Il libro, considerato uno dei testi religiosi dell’induismo, è una raccolta di storie nella storia, come il “Decameron” nostrano; e similmente, le storie narrate contengono un significato morale anche se per stile e per spirito distano, ovviamente, anni luce l’una dall’altra.
In “Battlefield” vediamo solo uno spaccato della «storia dei discendenti di Bharata» (da cui il titolo) racconto che, mitologia vuole, fu posto su una bilancia e valutato superiore per ampiezza e peso a un’altra influente raccolta, quella dei quattro Veda.
Proprio sfidando la gravità dell’opera, Peter Brook, con il suo potere di trasformare in leggerezza e semplicità tutto ciò che ha peso e complessità, riesce a toccarne la pura essenza, consegnandole una vitalità universale per l’essere umano. Da questo punto di vista Peter Brook è “shakespeariano”. Come Shakespeare, Brook sottolinea l’importanza del linguaggio nella resa di uno spazio, uno spazio che l’occhio non vede ma che la mente prova a immaginare. Se per Shakespeare, però, è solo la parola a diventare scenografia, lui non punta alla traduzione del verbo in scena sensibile, ma alla ricerca di un linguaggio autentico per esprimere il teatro: un’unica lingua fatta di parole, gesti, oggetti, costumi. Così, all’interno di uno brook3“spazio vuoto” – concetto che nelle parole, quelle scritte in un famoso saggio, ha assunto per i giovani storici del teatro un’aura quasi leggendaria – in “Battlefield” immaginiamo una dimensione post-apocalittica: un campo di battaglia pieno di sangue e cadaveri, donne accasciate sui corpi degli uomini che hanno perduto a causa di mali connaturati, la violenza e la guerra, frammenti aguzzi di storia destinati a essere scagliati verso l’umanità ancora e ancora.
In Battlefield si è testimoni di un rito, nella forma e nel significato: un rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Un figlio contro il suo volere deve prendere in mano le redini di un regno senza ormai più sudditi, perché la guerra, un po’ come nell’”Ubu roi” di Alfred Jarry, ha portato i regnanti a una lotta assurda che li ha visti annientarsi l’uno con l’altro, tra consanguinei, perché morale della storia è che tra distruzione e autodistruzione non c’è differenza: «la distruzione non si presenta mai con le armi in mano, ti fa vedere il male nel bene e il bene nel male».
Per la bellezza della dimensione spirituale evocata, con attori-attanti dei personaggi dell’opera che maneggiano semplici scialli dai colori pastello per adattarli alle esigenze delle parti da incarnare – più allegorie che personaggi – “Battlefield” avrebbe necessitato di essere ospitato in un ambiente diverso, un luogo meno d’élite e più raccolto, magari nel segno del teatro di Brook “vecchia maniera”; quel teatro di cui lo stesso regista ha portato negli anni alta la bandiera, che ricreava una situazione intima e informale, su un tappeto che delimitava l’area della performance, e che vedeva gli spettatori seduti intorno, come bambini curiosi e ammaliati. Silenti, in ascolto, con le orecchie e con il cuore.

Renata Savo 18/05/2016

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