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Il sogno profetico dell’utopia borghese nel “Calderón” di Pasolini

“Uno spettro s’aggira per l’Europa”: s’insinua nei salotti dei regnanti e dell’alta borghesia. S’insinua tra le poltrone rosse del Teatro Argentina dove ha debuttato “Calderón” di Pier Paolo Pasolini per la regia di Federico Tiezzi. Il testo, scritto nel 1966 e dato alle stampe nel 1973, non fu mai messo in scena dall’autore. Un’opera densa e complessa, di difficile interpretazione, che parte da una rivisitazione da parte di Pasolini dell’opera “La vita è sogno” di Pedro Calderón de la Barca, ambientata però nella Spagna franchista negli anni 1967-1968, a un passo dai moti rivoluzionari.
Rosaura, la protagonista, vive tre vite differenti, tre sogni che la portano nei palazzi reali di Madrid, nel bordello tra le baracche sotto il cimitero di Barcellona e infine in un salotto piccolo borghese. Tre sogni, tre vite, tre amori. Amori impossibili e tormentati, desideri di fuga dai mondi in cui si trova prigioniera, come in un lager che rispecchia la condizione reale delle classi sociali messe in scena. In una struttura triadica delimitata dalla cornice storica del ’68, si inserisce un continuo conflitto generazionale che si declina all’interno di un più generale conflitto fra classi. Nella costante dimensione onirica, il conflitto edipico, manifestato dall’ingombrante presenza del padre, è prima privato, poi pubblico e infine storico, divenendo la colonna portante di quella rivoluzione che Pasolini riduce a sogno, a mera utopia.
Un’opera, dunque, non solo teatrale ma politica con cui, come dichiara lo stesso regista, si vuole mettere in scena Pasolini stesso, le sue ossessioni, la sua morale. La difficoltà data dalla densità intellettuale e drammaturgica di Pasolini mette alla prova lo spettatore e lo tormenta fin dentro il suo inconscio privato. Al tempo stesso il testo parla all’inconscio collettivo cui si riferisce.
Cosa spinge dunque oggi a una messa in scena di un testo come “Calderón”? Forse, non tanto uno sterile incitamento alla rivoluzione, quanto un risveglio della coscienza rivoluzionaria di un popolo che l’ha dimenticata.
Funzionali in questo senso le scelte registiche e interpretative: le strutture sceniche imponenti, ma al tempo stesso semplici, ricordano la condizione carceraria e opprimente che Rosaura si trova ad abitare. L’enfasi dell’espressione verbale e corporea muta nel corso degli atti contribuendo a calare lo spettatore in quella dimensione onirica e visionaria dominante. L’elemento grottesco nei volti e nei costumi contribuisce a creare dei veri e propri tableaux vivants, come quel “Las meninas” di Velazquez tanto caro a Pasolini e realmente inscenato nel primo atto.
Il testo pasoliniano ricco di citazioni e rimandi si riferiva verosimilmente a quei “gruppi avanzati della borghesia” che indicava come suoi destinatari nel “Manifesto per un nuovo teatro”. Ma ci si chiede a chi possa parlare oggi un’opera simile. I continui riferimenti culturali non sono di facile assimilazione da parte dei più, poiché si è oggi lontani da quel contesto storico-sociale.
Nonostante, dunque, le ottime interpretazioni degli attori che vivificano le parole pasoliniane e l’ottimo lavoro intellettuale compiuto dagli autori (Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi), “Calderón” rimane per sua stessa natura un’opera di difficile rappresentazione.

Giuseppe Cassarà, Gertrude Cestiè 21/04/2016

Approfondimenti: https://www.recensito.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=14733:francesca-benedetti-la-mia-dona-lupe-vampiresca-nel-calderon-di-pasolini-tiezzi&Itemid=145