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"Il ritorno a casa": la famiglia per Harold Pinter è una guerra fatta di parole e di silenzi

Bella la casa, magari un tocco femminile non guasterebbbe per dare quel tono all’ambiente che, davvero, ci siamo capiti. E poi, si sa, queste belle famiglie britanniche sanno proprio come si fa a far morireRitornoacasapinter1 d’invidia i nostri affollati nidi mediterranei. La complicità, l’affetto reciproco. Un approccio alla vita disteso, rilassato. Mai un rancore, una recriminazione, una parola fuori posto. Non è così? No. Nella maniera più assoluta. Ma è utile sottolineare attraverso questo discutibile preambolo come l’ironia, dai toni nerissimi e divertiti, sia uno dei perni cui si appoggia Harold Pinter per dare colore a Il ritorno a casa. Commedia in due atti dall’incedere via via più minaccioso, esordio sui palcoscenici inglesi alla metà degli anni ’60, da noi un decennio più tardi. È portata in scena, per la regia di Carlo Lizzani, al Teatro Tordinona di Roma dal 20 al 31 marzo. Un testo ambiguo e sfuggente, che tocca nervi molto scoperti e ancora più ostici. Punteggiato com’è dalla scansione di parole e silenzi di cui il drammaturgo inglese, premio Nobel per la Letteratura e questo sia detto nel modo più pomposo e solenne possibile, è maestro. Per lo più, Il ritorno a casa ( titolo originale The Homecoming) si diverte a seminare interrogativi. Uno dei più interessanti riguarda il titolo e vale la pena di riproporlo. Ma chi è che sta tornando a casa, veramente? Perché, a rigor di logica, la risposta facile facile ce la fornisce il copione. Ma è Teddy che torna a casa, per presentare alla famiglia la bella Ruth, sua moglie. Teddy è interpretato da Carlo Lizzani, una maschera di mediocrità forse studiata, forse no. È professore di filosofia in America, ha tre bambini. Ruth è interpretata da Debora Troiani. Ha un sorriso da sfinge perennemente incollato sul volto, e diventa in breve l’oggetto del desiderio degli inquilini della casa. L’interno è un ambiente limitato all’essenziale, un paio di poltrone, un tavolino, uno specchio. Gli abitanti di questa scena minima sono prima di tutto Max ( Mario Ive), macellaio in pensione vedovo. Vomita sulla famiglia il suo rancore a getto continuo, in particolare sul fratello Sam ( Vittorio Caffè), che canterella fuori campo per tutta la durata della rappresentazione. Completano il quadro i figli Lenny ( Marco Sicari), e Joey ( Valerio Ribeca). Il secondo, aspirante pugile, il primo, sicuramente coinvolto in loschi affari. Ci si mettono d’impegno a dare il peggior benvenuto possibile ai nuovi venuti. In particolare, liquidando la povera ( povera?) Ruth come una prostituta. E lei, che non si perde d’animo, manovra consapevolmente la spaventosa frustrazione sessuale dei tre e si reinventa. Abbandona il marito, la famiglia, i figli, le responsabilità della vecchia vita, per “tornare” a casa, la sua Londra, un nuovo gregge da accudire ma questa volta da regina incontrastata. E prostituta. Dietro ogni parola e nei gesti che fanno da accompagnamento, riposa la verità nascosta di un testo scomodo come Il ritorno a casa. Scomodo perché fa esplodere la sua miccia nel cuore dentro il cuore della quotidianità. Racconta senza sconti lo svilimento della donna a un mero ruolo, moglie madre puttana, la mercificazione del sesso. Scandaglia l’ipocrisia dei valori della famiglia tradizionale, semina rabbia dove vorremmo ci fosse solo affetto e comprensione. E merito a Lizzani, regista e interprete, per non aver smarrito questa qualità guerrafondaia, per non aver ceduto al mistero dei significati di un’opera che non si lascia leggere nella sua interezza. Talvolta la scansione di vuoto e rumore, frasi e silenzi, non produce un buon ritmo. Altre volte, l’impressione è che certe reazioni siano un po’ affrettate. La cornice della messa in scena non è ricca, ma il fascino dell’artigianato regala sapore al lavoro. Attori giovani, attori meno giovani. Il ritorno a casa è una produzione semplice nei valori produttivi e complessa nei significati, piacevole a guardarsi. Un’occasione per riscoprire la forza delle parole di uno dei più importanti nomi del teatro degli ultimi decenni. E questo sia detto nel modo meno pomposo e più riconoscente possibile.

Francesco Costantini 21/03/2018

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