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"Il Pellegrino": Massimo Wertmuller fa rivivere in scena la Roma “de ‘na vorta”

È un viaggio nella Roma del “Papa Re” quello in cui ci conduce Massimo Wertmuller in “Il Pellegrino”, spettacolo scritto e diretto da Pier Paolo Palladino e rimasto in scena fino al 24 gennaio al Teatro Palladium di Roma. Unico attore presente (sul palco, in penombra, anche la presenza discreta dei musicisti Pino Cangialosi, autore delle musiche, al fagotto e percussioni, e Fabio Battistelli al clarinetto), a disposizione nient’altro che una sedia, Wertmuller mette in campo non solo tutta la sua presenza scenica e la sua capacità attoriale, ma anche una consumata abilità nel modulare la voce, nel ricreare toni e dialetti, per trasportarci in un vero e proprio pellegrinaggio tra la gente, i vicoli, le atmosfere della Roma di Pio VII.
Siamo negli anni della Restaurazione, quelli che seguirono la sconfitta di Napoleone; protagonista e narratore della storia è Nino, romano navigato, vetturino e tuttofare al servizio di monsignor Caracciolo. Il pover’uomo si vede affidare dal suo padrone il fastidioso compito di sorvegliare il giovane nipote milanese del cardinale, giacobino idealista e pieno d’entusiasmo, scappato da Milano per sfuggire alla polizia austriaca. Vestito come un Rugantino qualsiasi, Wertmuller riesce, attraverso il solo uso di voce e gesti, a incarnare e a far comparire davanti ai nostri occhi una pazza folla di personaggi (ben venticinque); abile l’attore nel ricreare con le parole i diversi ambienti, nel dare l’impressione che il palcoscenico vuoto sia riempito di volta in volta da osti irosi, vecchi smemorati, laide maliarde, giovani rivoluzionari, consumati delinquenti, vetturini balbuzienti, prelati e nobili, barboni e borseggiatori. Una pluralità di voci, di accenti che rappresentano uno stralcio grottesco e ironico di quell’umanità variegata che riempiva i vicoli della città eterna nella prima metà dell ‘800.
È una Roma “sincera, autentica, verace”, come si ostina a definirla il giovane giacobino, quella che si manifesta davanti ai nostri occhi: quella delle incisioni del “Pittor de Trastevere” Bartolomeo Pinelli, quella dei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, ma anche quella raccontata da Luigi Magni, regista che ha ricreato e consolidato attraverso il cinema l’immaginario della Roma papalina e risorgimentale, e con cui Wertmuller ha lavorato nel film In nome del popolo sovrano. Non sarà un caso che il protagonista dello spettacolo si chiami Nino come Manfredi, attore feticcio di Magni.
Ci piace pensarlo come un omaggio, una corda tesa tra queste due esperienze, capace di evidenziare sia le influenze e i debiti del testo di Palladino, sia i riferimenti attoriali di Wertmuller. Una comicità amara, velata di tristezza, quella che ci propone “Il Pellegrino”, che riesce a far venire fuori le ambiguità di una città che ha sempre vissuto un’insanabile dualità, nel suo essere insieme vitale e decadente, scanzonata e malinconica, solare e tenebrosa, bigotta e libertina, nobile e popolare, rivoluzionaria e papalina, terribilmente violenta e incredibilmente tenera.

Gianluca De Santis 25/01/2016