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Il Nerone di Sylos Labini: da folle incendiario a icona dandy dei nostri giorni

«Né con sforzo umano né per le munificenze del principe o cerimonie propiziatorie agli dèi perdeva credito l’infamante accusa secondo la quale si credeva che l’incendio fosse stato comandato» (Tacito).

Ci sono protagonisti della storia recente e passata che non godono di ottima fama nella memoria condivisa. Anzi, le nefandezze commesse in nome di un ideale, o per pura follia, li hanno confinati al limite della rimozione o costretti nelle maglie asfittiche di cliché e falsificazioni tramandati da generazioni di storici e biografi. Così, il ritratto a tinte fosche di Nerone, tiranno e artista, narciso e sanguinario, passato ai posteri per aver costruito sulle macerie ancora fumanti di Roma la sua reggia dorata all’indomani del grande incendio del 64 d.C., ha contaminato per secoli ogni giudizio sul conto dell’«imperatore maledetto». I primi ad alimentare false leggende e deformazioni tendenziose, si sa, furono i “reazionari” Svetonio, Tacito e Dione Cassio: Nerone il folle, il dissoluto, il matricida, l’uxoricida, il fratricida, l’assassino del suo precettore, addirittura l’Anticristo; uomo politico incapace, manovrato da una madre ingombrante, esecrato dai senatori che vessò e dai cristiani che fece perseguitare. Scorrendo le cronache degli storici latini, l’elenco delle sue turpitudini pubbliche e private aumenterebbe a dismisura. Qui, valga, come ultimo (più moderno) esempio di un’iconografia ormai cristallizzata, la caricatura da macchietta molle, inetta e farneticante dello scatenato Peter Ustinov nel kolossal hollywoodiano Quo vadis?.
Ma siamo davvero sicuri che Nerone non fosse migliore di come la vulgata ce l’ha tramandato fino a oggi? Che fosse così abbietto e malvagio come abbiamo imparato a conoscerlo? Di recente, in molti hanno tentato di riabilitarne l’immagine (almeno quella politica) adducendo a sua discolpa il buonsenso da sovrano “democratico” di cui diede prova nelle politiche fiscali a favore del popolo, nonché la lungimiranza nel progetto di riforma culturale che avanzò sotto il suo regno (portando la musica e il teatro greco nel costume romano) contro l’ottusità della casta gentilizia. Fra questi, il giornalista e scrittore Massimo Fini che, a più di vent’anni dall’uscita del suo saggio “revisionista”, “Nerone. Duemila anni di calunnie”, rivive pressoché fedelmente a teatro nell’omonimo spettacolo prodotto e diretto da Edoardo Sylos Labini (da un’idea di Pietrangelo Buttafuoco) con la drammaturgia di Angelo Crespi.
Due atti densi di contaminazioni visive, verbali, musicali che, entro la cornice fittizia di un incubo meta-teatrale (l’ultima notte prima della sua morte), ripercorrono la breve e controversa parabola di Nerone uomo e imperatore (Sylos Labini), attualizzando (grazie ai costumi di Marta Crisolini Malatesta) e, al contempo, strizzando l’occhio a certi stilemi (un po’ datati) del teatro decadente fin de siècle. Per esempio, nella scelta di scenografie livide, opprimenti, da Basso Impero, che rievocano gli sfarzi marmorei della Domus Aurea; nelle pose estenuate da dandy esteta o da mediocre teatrante di Nerone, dedito all’“art pour l’art” più che all’esercizio del potere, insieme a tutta la corte sinistra di ballerine, eunuchi e buffoni (Fonderia delle Arti) di cui si circonda; ma, soprattutto, nella sovrabbondanza di citazionismi lirici anacronistici (le arie «La calunnia è un venticello» dal Barbiere rossiniano e «Lascia ch’io pianga» dal Rinaldo di Händel) che si innestano nell’azione secondo quel genere di “Disco-Teatro”, creato da Sylos Labini nel 1999, che trasforma il palco in un dj-set con musiche dal vivo del mimo Paul Vallery.
In questo pastiche affollato di fantasmi e visioni del passato, di intrighi di corte, calunnie e tradimenti cocenti, Nerone non è più solo – come ricorda ossessivamente il refrain che riecheggia in sala – il pazzo che «ha bruciato Roma, ha ucciso la madre, la moglie e il fratello», ma una marionetta infantile, un sognatore in balìa di un’Agrippina (Fiorella Rubino) amante incestuosa, di un Seneca (Sebastiano Tringali) scaltro arrivista, di un Fenio Rufo (Giancarlo Condè) subdolo calcolatore e di una Poppea (Dajana Roncione) avveduta almeno quanto bella. Trama ogni sorta di congiura l’oligarchia del Senato per metterlo in cattiva luce di fronte al popolo che lo adora, per sbarazzarsene anche a costo di avvelenarlo. Ma sarà l’amore viscerale per il teatro, per l’arte disimpegnata da ogni preoccupazione pratica, a fornire ai ribelli l’occasione per deporlo e, infine, indurlo al suicidio.

Visto a Roma, Teatro Quirino il 19 gennaio 2016.

Valentina Crosetto 22-01-2016

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