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Il giardino dei ciliegi. Trent'anni di felicità in comodato d'uso. Čechov secondo Kepler-452 tra drammaturgia e autobiografia

Lodo-Lopachin in Il giardino dei ciliegi, Kepler-452

"Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso", in scena al Teatro India di Roma dal 14 al 17 febbraio, è la riscrittura della compagnia Kepler-452 del dramma russo di Anton Cechov. La parola felicità, recita il sottotitolo: «Oh! Infanzia, purezza mia! Dormivo in questa stanza, di qui guardavo il giardino, e tutte le mattine la felicità si svegliava con me! Ed è rimasto com’era, Uguale, intatto! Bianco! Tutto bianco!» (Anton Čechov, Il giardino dei ciliegi, atto I, 1904, corsivo mio).
La sera della prima, Il giardino dei ciliegi si apre con la rievocazione dell’immagine della luce fredda, bianca, dell’alba russa. Quest’immagine, del giardino incantato che si prepara al giorno, prologo di un sole non ancora sorto, significa già la scomparsa di un luogo magico, profondamente intriso delle vite di chi lo ha abitato. Parlando al pubblico mentre le luci di sala sono ancora accese, Nicola Borghesi e Paola Aiello, regista e attrice del gruppo teatrale bolognese, presentano quelli che di questa storia sono i fatti e i personaggi: 9 dicembre 2015, Giuliano e Annalisa Bianchi vengono sgomberati dalla loro casa in cui hanno vissuto per più di trent’anni in comodato d’uso; 15 dicembre 2017, inaugura di fronte a quella casa, FICO, Fabbrica Italiana Contadina, il più grande parco tematico del cibo del mondo; 22 agosto di un imprecisato anno di fine Ottocento, il giardino dei ciliegi di Ljuba e Gaev, proprietari terrieri della Russia prerivoluzionaria, andrà all’asta per debiti insieme alla loro casa. Poco dopo, saranno a loro volta sgomberati. Nei panni di personaggi immaginari realmente esistenti, Giuliano e Annalisa sono i moderni Ljuba e Gaev ĉechoviani; attore, ma non cantante, in jilet bianco e scarpe gialle, Lodovico “Lodo” Guenzi (Lo stato sociale) è Lopachin. Dal desiderio di mettere in scena l’opera di Čechov, nasce l’urgenza di farlo attraverso l’idea della sintesi di un “giardino”, oggi, e l’esigenza di cercarlo all’orizzonte dei prati e dei parchi fuori dalla loro città, nella periferia di Bologna. Un lavoro di rilettura, riscrittura e analisi del testo su un testo che non smette di raccontare raccontandosi, nella storia di Giuliano e Annalisa, dove la drammaturgia si integra ibridandosi ai fatti autobiografici: scene campestri e di vita contadina, la registrazione di una telefonata, la presenza sul palco di elementi scenici di casa Bianchi (un pappagallo Ara, un piccione, una pistola da mattazione per maiali). Animali e oggetti che adesso non servono più a nulla se non all’ornamentazione di una scenografia aborre dal vuoto, dalla fine di tutto. Tutto quello che viene toccato, sfiorato, preso in mano, raccolto dagli attori è già perduto. Alcuni episodi contenuti in questo lavoro teatrale sono infatti ricordi di vita passata di Giuliano e Annalisa che hanno abitato il loro “giardino dei ciliegi”, a Bologna, che non c’è più. Al centro del dramma vi è la dialettica tra illuminismo e magia, legge e natura, il passaggio inesorabile dalla vita agricola che era a quella urbana che sta per avvenire. Questa rappresentazione de Il giardino è una riflessione, parlata e agita, di uno sguardo al passato. Un passato che si fa vivo nel presente in un moto di cinesi e stasi, tra loro in tacita connivenza, nell’attesa tremenda della perdita. Sul finire del IV atto, resta sul palco un divano coperto da un telo bianco, dove nessuno è più seduto, circondato da oggetti da ripulire, sistemare, sgomberare… Lì, su quel divano, stava Ljuba rannicchiata. Aspetta che da un momento all’altro le crolli addosso la casa. Una finale scritto tra le lacrime, come suggeriscono, qua e là, le indicazioni scritte tra parentesi nella sceneggiatura. Le lacrime che tradiscono il dolore interno di un pianto, di Čechov, di Giuliano-Gaev, di Annalisa-Ljuba… Un ultimo atto di trionfale immaginazione al pensiero del giardino come cimitero di alberi divisi in lotti per villini, le tombe dei villeggianti e delle loro esistenze quotidiane. Un giardino di vecchi ceppi, i ciliegi tagliati, dalle radici così forti da rompere il marciapiede e far inciampare i passanti.

Elvia Lepore, 17.02.19