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"Il filo di Arianna" di Enrique Vargas: il viaggio interiore tra i nostri eroi e i nostri mostri

Prima di fare qualcosa noi cadiamo. Più grande è la caduta, più interessante è il lavoro” (Enrique Vargas). Siamo abituati alla caduta da quando nasciamo, “cadendo” dal ventre della madre, una prima incontrollata violenza che ci condiziona per la vita. La caduta è sinonimo di distacco, di perdita di controllo, di un dolore inevitabile ma anche di vibrazioni nuove, di cambiamenti inattesi, di un fluire energico.
È ciò che il maestro colombiano, Enrique Vargas, ci chiede con il suo “Il filo di Arianna”, avere il coraggio di cadere, di far scorrere il tempo, la vita, le paure, i mostri che nascondiamo. Il lavoro – il primo dellaIl Filo di Arianna 2 ph Stefano Di Cecio trilogia del Teatro de los Sentidos sul labirinto, sulla ricerca personale e individuale – è allestito negli spazi del Funaro di Pistoia (rimarrà in scena fino al 23 settembre), ormai stabile terra accogliente per il genio e il pensiero di Vargas dove, dal 2009, ha proposto, in ogni stagione, i propri spettacoli e laboratori; un percorso all’indietro per la compagnia, un ritorno alla origini, alla prima tappa di un lavoro sull’uomo che ha scardinato i limiti fisici e spaziali del teatro, rivoluzionandolo, piegandolo ai propri fini, alla propria analisi antropologica.
Entriamo in silenzio, scalzi, all’interno di un cammino che ancora non conosciamo e che iniziamo, come una sorta di rito apotropaico, scegliendo gli ingredienti del nostro passaggio, il colore dei fili della nostra anima. Procediamo seguendo questi stessi fili immaginari, immersi quasi completamente in un’oscurità che spaventa ma, al tempo stesso, solleva da tanti fardelli, andando a cercare dentro noi stessi una luce per farci strada, una memoria dei sensi troppo spesso occlusa che aiuti a orientarci. Siamo alla Il Filo di Arianna 3 ph Stefano Di Cecioricerca del Minotauro, una presenza che sembra sfiorarci, che avvertiamo nell’immaginario di ombre che attraversiamo lentamente tra teli, velluti e reti. Sono questi gli elementi che compongono il disegno di un labirinto evocativo all’interno del quale personaggi simbolici, a volte spettrali a volte sensuali, ci aiutano a ricordare chi siamo con mani che afferrano e calmano, voci appena sussurrate che spaventano e scaldano, braccia che fermano e accolgono.
L’analisi che i los Sentidos ci spingono a intraprendere è fatta di piedi che si adattano, che riconoscono, che si ritraggono e di dita che protendono verso l’ignoto, “i tuoi occhi devono essere la punta delle tue dita”. La scenografia sonora e olfattiva non ci lascia il tempo di distrarci dal cammino, tra leggeri scrosci d’acqua, rumori della natura e profumi familiari di lavanda e caffè nei quali identifichiamo frammenti di memoria: attiviamo tutti i sensi, cauti e coraggiosi come Teseo, in questo dedalo pulsante come l’utero materno che ci partorisce nuovamente, dandoci, qui, all’oscurità e non alla luce, ai nostri mostri, al silenzio. Il segreto, sembra suggerirci Vargas, sta proprio in un paradosso, riusciamo a vedere soltanto se chiudiamo gli occhi, riusciamo a sentire ogni cosa soltanto in assenza di suoni. È un viaggio ricco di ossimori, un viaggio di morte e di vita – metodo e temi ricorrenti nella poetica del registaIl Filo di Arianna 6 ph Stefano Di Cecio di stanza a Barcellona – carico di simboli fondamentali come maternità e eros e di paure antiche e mai risolte; un viaggio alla ricerca del proprio tempo (la clessidra è un elemento ricorrente in tutto il percorso), in cui dobbiamo perderci, cadere come Alice in un paese senza meraviglie e farci male, essere pronti a uccidere il Minotauro per scoprire infine che la bestia siamo noi.
Vargas ci aiuta a rivolgere lo sguardo verso la nostra interiorità, viaggiatori danteschi smarriti, invitandoci a liberare sensi e immaginazione e ad annusarci, fidarci di noi stessi, ascoltare il battito del cuore, lo stesso che ci accompagna nel cammino, in un crescendo di intensità fino alla nostra “ennesima” piccola epifania: siamo Teseo, siamo il filo che traccia la via, siamo il nostro peggiore nemico, siamo il labirinto stesso.
Se noi volessimo e osassimo un'architettura secondo la modalità delle nostre anime (ma siamo troppo vili per questo), nostro modello dovrebbe essere il labirinto”. (Friedrich Nietzsche, Aurora).

Giulia Focardi 20/09/2017

Foto: Stefano Di Cecio

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