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I Lenz fanno Orlando in mille pezzi

PARMA – Orlando frammentato, dissolto, segmentato, fatto a pezzi, disciolto nell'acido, dissociato. Tutt'altro che furioso. Direi, pacificato, lento, colmo, quasi rassegnato dopo tanta pugna e battaglia, dopo i corpo a corpo con il Fato ed il senno. Respira, piuttosto ansima tra le pieghe di questo ex ospedale che ne porta ancora i segni dolorosi, i graffi freddi, le pareti bianche da far male, da stridere sotto i denti, da urlare a passarci le unghie rotte. Il tomo dell'Ariosto diviso in otto parti dai parmensi Lenz, quattro andate in scena tra il Museo Guatelli, dalle migliaia di oggetti raccolti di vita quotidiana contadina, e questo Padiglione, dismesso, immerso nelle nebbie, città dentro la città, di vetri opachi, vialetti sghembi, alberi stanchi, aiuole annoiate molli come struffoli al miele, palazzine messe lì come pezzi di Lego. Altre quattro scene saranno montate in questo 2016.
Se pensate di ritrovare i cavalieri e le dame vi sbagliate; qui rimane l'essenza pura, il distillato compresso in frasi ripetute come mantra e cantilena, gocce in un'altalena di emozioni tra la letteratura e le biografie dei loro “attori sensibili”. Si parla di #Fuga, “sto scappando dall'uomo che mi deride”, “scappo finché non rimane che un suono”, nella musica lirica, nella musica livida, i ristrutturati personaggi hanno caschetto e vestaglia da pugili, come a dire che sì, si colpiranno, ma che è una farsa e si faranno meno male possibile, che il male non sono i pugni. “Io vorrei fuggire” rimbomba, le parole scandagliate che scalfiscono, dette piano che ingolfano l'esofago e si fanno largo tra le costole. Ci sentiamo alla deriva, posto e dato per assodato che ogni #uomo è un'#Isola, lontani dalle stanze dei bottoni decisionali, passivi, a distanza dal #Palazzo, che vorremmo distruggere, che invece rimane sempre corazza e fortezza inespugnabile, per noi intoccabile. Noi spettatori messi al muro, appollaiati, spalmati, responsabili anche della loro emarginazione, del non riuscire a capire le loro facce tinte di bianco, la malattia intrinseca, la solitudine che sfora da ogni respiro, l'angoscia in questi occhi che non trovano soluzione.
Siamo Orlando con le sue nevrosi, siamo Ruggero dilaniato e tormentato, siamo la strega Alcina (Delfina Rivieri, doti comiche e d'improvvisazione) che non riesce a darsi pace, siamo Astolfo disperso nei propri meandri, siamo Bradamante (Barbara Voghera, la più connessa alle nuvole della vicenda) che vaga confusa, siamo Angelica che ama e odia in egual misura. Passiamo di stanza in stanza come pazienti, degenti, attendiamo il nostro turno come buoi al macello. Sembra di sentire il sapore amaro di pastiglie, le luci psicotiche, il soffocare claustrofobico. I grossi termosifoni in ghisa, solida e poderosa, danno un senso di compiutezza, di fondamenta salde. Ci si può fidare. Kimoni e maschere di animali scombinano i piani.
Ascoltare l'ensemble di uomini e donne messo al lavoro e impastato da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto è un rito collettivo dove ogni particolare e dettaglio s'incastra in un processo, e progetto, più ampio. L'attore porta molto della sua persona, si mostra fragile senza vergogne, ci chiede conto della nostra “presunzione di normalità”, del nostro sentirci altro, diversi, superiori, migliori. Come un j'accuse, le scene s'affastellano, come colori pieni di vernice a stratificare segnali. Le loro parole, le immagini che passano e ci tagliano con luci violente in questa pace rarefatta, chimica, alterata, di odori pungenti, di bruciato e affumicato. Pullula di ossessioni e maldicenze, di acrilico e smodato e sfrontato.
L'apertura-scena madre, grave e gonfia come vacca da sgravare, ha lettighe d'acciaio da obitorio, cere vitree e lisce, gomma piuma bianchissima che pare soffice pandispagna dove cullarsi, molleggiarsi, addentrarci, da addentare. I corpi sotto pulsano prima di fare la loro epifania da zombie in emersione, sorpresa e riconoscersi nel gelo che prende, nella balbuzia che cresce, nell'ammaraggio nel quale cade il nostro essere borghesi ed ora sospesi tra una vita fuori che ci aspetta e questa parentesi (come tutte le “lezioni” dei Lenz) che folgora chi si lascia andare a nuovi significati, che non tange chi ha verità da esporre in ogni occasione, ad ogni latitudine.

Tommaso Chimenti 05/01/2016

Foto: Francesco Pititto

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