FIRENZE – Il nodo è se prendere alla lettera “I duellanti” oppure astrarsi ed estrarre dal plot quell'intimismo, quel grado di introspezione e psicanalisi utile a mordere la polpa che pulsa sotto l'ossatura del testo. Se vogliamo cioè trattare la storia dei due ufficiali napoleonici che si sfidano ripetutamente nel corso di vent'anni di guerre europee ottocentesche, dettate dal basso Imperatore con la mano nel panciotto, come reale contesto oppure se, contrariamente, vogliamo leggere dietro le righe e scandagliare e usare la superficie come coperta, orpello ammiccante ed abbellente, messa lì proprio per essere scostata e mostrare il vero interesse della faccenda. Propenderei per il secondo, ovvero che Napoleone e le sue battaglie, ma anche gli stessi duelli di cappa e spada all'ultimo sangue non siano altro che ingranaggi ed ingredienti per arrivare al nocciolo della questione: l'uomo contro se stesso, l'uomo e la sua ombra, l'uomo e il suo alter ego, l'uomo e quel nemico impossibile da sconfiggere, da uccidere.
Ne “I duellanti”, dal racconto di Joseph Conrad, passando al grande schermo per la regia di Ridley Scott, per la prima volta in teatro, trattato dalla penna di Francesco Niccolini e dalla regia di Roberto Aldorasi, è forte il richiamo al Don Chisciotte e al suo scudiero Sancho Panza. Certo qui il ruolo di sudditanza e di fedeltà dovuta non sono così sbilanciati e chiari, ma questa forsennata ricerca dell'altro, per sfidarlo e batterlo, ma realmente poi in fondo senza volerci davvero riuscire, li tiene in vita l'un l'altro, legati a doppio filo, come forza, come possibilità, come idea di futuro. Avere qualcuno da odiare è un motivo per vivere e pensare al domani al pari di avere qualcuno da amare. Li stringe un patto, un sentimento forte e preciso, intenso, un piacere contorto, perverso e paradossale del quale non riescono a fare a meno. Si riesce ad annusare il Buchner del “Woyzeck” così come i tratti passionali, disfattisti e autolesionisti del romanticismo.
Però in questa versione teatrale ci si impegna molto, con la scena piena d'oggettistica, la violoncellista (bravissima Federica Vecchio che detta i tempi con ritmi sincopati e carnali e anche il “Lascia ch'io pianga” è stereotipato ma al tempo stesso pervasivo e pugnace), vari aiutanti e doppi ruoli, a confondere le acque rimanendo ad un grado impercettibile della vicenda senza riuscire a poter andare a fondo a scavare. Rimangono le dinamiche, le gesta, i movimenti, l'anima non esce appieno. Molte aggiunte formali (sono quelle che vogliono e necessitano i grandi Teatri nazionali di giro e i loro pubblici attenti più all'abbondanza e all'opulenza del palcoscenico che al contenuto intimo) che potevano benissimo essere scartate per regalarci un bello, corposo e fitto duello (non c'era bisogno nemmeno delle spade, bello lo scontro con le luci stroboscopiche) dialettico e verbale, uno di fronte all'altro nella loro essenzialità, mettendo in campo una battaglia di parole argomentate, un dialogo stretto occhi negli occhi, una seduta psicanalitica per giungere all'essenza di questa unione, di questo vortice che pare indissolubile, di questo legame aggrovigliato che pare impossibile sciogliere.
Forse Conrad voleva dirci altro, né presentarci la storia napoleonica (usata per fare da sfondo e niente più) né descriverci duelli di sciabola, fioretto e pistola, né di raccontarci di gradi militari o di suturazione delle ferite. Qui ci sono due uomini (e Alessio Boni e Marcello Prayer, in blu e rosso come i colori delle matite per segnare gli errori, sono più lanciati e inclini sul versante fisico energico e virile guerrigliero) che potrebbero guardarsi allo specchio (le note di regia di Francesco Niccolini, che ne ha curato l'adattamento, vanno in tale direzione, però la scena ha risucchiato questa ottima intenzione) oppure essere una sola persona, la luce e il buio, la ragione e l'istinto, il bianco e il nero che si rincorrono, si scontrano, si feriscono, che non si capiscono né si ascoltano.
La guerra con noi stessi non l'abbiamo né chiesta né cercata ma è lì presente ed ogni giorno il nemico che è dentro di noi, quello che rema contro, fa capolino, frena, fa deragliare, cerca di ostacolarci, di portarci su altre strade. Dentro di noi abbiamo un Pinocchio e un Lucignolo e a volte è facile seguire l'uno o più semplice dar ragione all'altro. Ma i nodi vengono al pettine e quei cappi lì neanche una spada ben affilata può dissolvere.
Tommaso Chimenti 12/02/2016
Foto: Federico Riva