In onore del centenario dell’Ulisse di James Joyce è arrivato al teatro Argot Studio di Roma il progetto Ulysses 100: Molly B e Leopold, due spettacoli diversi ideati per omaggiare i protagonisti di una delle più grandi opere letterarie del ‘900. E a portare in vita i due personaggi e i loro pensieri sono stati Iaia Forte e Maurizio Panici che, con questi spettacoli, hanno confermato la loro incredibile bravura attoriale.
Durante la presentazione generale del progetto sono intervenuti il traduttore Fabio Pedone, giornalista Edoardo Camurri ed il professore Enrico Terrinoni che hanno soffermato la loro attenzione proprio sul testo di Joyce e su quanto sia stato fondamentale il suo contributo letterario nella letteratura novecentesca.
Il via al progetto l’ha dato Molly B, in scena dal 16 al 19 marzo, con Iaia Forte diretta da Carlo Cecchi. L’allestimento è tornato in Italia dopo una tournée all’estero. Un monologo che porta alla luce i pensieri notturni di una donna matura che si ritrova ad affrontare problemi quotidiani. Rispetto all’opera, questa Molly Bloom vive in Italia, probabilmente a Napoli, come si nota dal suo accento; la collocazione temporale invece, anche se non è specificata, si presuppone sia sempre nei primi anni del Novecento, come nel testo di Joyce.
Tutto lo spettacolo è intriso di una profonda intimità, il suo svolgersi di notte aumenta ulteriormente questo aspetto, ad indicare anche che quando si dorme si viene trasportati in una realtà altra, dove si diventa più liberi ed è possibile il fluire continuo di pensieri e sensazioni ai quali durante il giorno si tenta di mettere un blocco, impedendo che affluiscano in superficie, ma che il nostro subconscio finalmente può liberare.
L’intimità del monologo notturno è trasmessa anche grazie a una scenografia molto spoglia, sul palco c’è solo un letto e la parete dietro il letto è cosparsa di oggetti più disparati, un vinile, un libro e addirittura una bicicletta. Proprio per la loro composizione rappresentano i pensieri notturni sparsi della donna.
Una donna che in una sola notte passa in rassegna tutta la sua vita: i suoi giovani amori, la sua relazione con il marito e con l’amante, le sue fantasie, sia sessuali sia di una vita migliore, il rapporto con la figlia e, infine, il dolore di aver perso un figlio. Il monologo diventa un cerchio infinito di parole, tutto quello che le passa per la testa lo dice. E forse è anche per questo carattere di infinito che lo spettacolo non è precisamente collocato nel tempo, facendo aumentare la sensazione che si stia assistendo a qualcosa che si svolge in un’altra dimensione.
Ecco portata in scena la caratteristica di Joyce, i suoi flussi di coscienza, il suo dare importanza a quello che -solitamente- la lingua lascia fuori, restituisce alle parole quello che spetta loro. E questo dimostra quanto sia forte la volontà di vivere la vita pienamente, senza lasciare nulla fuori.
Iaia Forte con la sua unicità e bravura ha reso possibile questo ritratto facendo divertire ed emozionare, ma soprattutto ha fatto in modo che il pubblico riuscisse a entrare in contatto con lei e a rivedersi nelle sue parole e azioni, che nonostante raccontino una storia specifica sono emozioni e pensieri comuni a chiunque. E Il bello dello spettacolo e la sua riuscita stanno quindi proprio nella capacità di portare lo spettatore in un’altra dimensione che però è più vicina alla realtà stessa e al proprio io di quanto non possa sembrare.
Anche la serata del 23 marzo è stata ricca di emozioni per la prima dello spettacolo scritto, diretto ed interpretato da Maurizio Panici (lui ha ideato, curato e cresciuto l’Argot Studio), Leopold – La giornata di un uomo qualunque: un monologo che rende omaggio ai cento anni della pubblicazione dell’Ulisse di James Joyce e si inserisce nel progetto dello Studio romano Ulysses 100. Attraverso la figura di Leopold, Panici conduce lo spettatore nei meandri dei pensieri del protagonista del testo di Joyce che, in quel momento, raffigura tutti gli esseri umani.
È un lavoro complesso quello che porta in scena Panici perché, oltre a riadattare il romanzo irlandese per il teatro, ha inserito anche dei frammenti del testo di Fernando Pessoa, il Libro dell’inquietudine, il cui protagonista non si distacca completamente da Leopold Bloom.
La scenografia dello spettacolo è minimale: si sa che quello che riempirà davvero la scena saranno le parole, quell’incessante flusso di pensieri che, delle volte, diventano scomodi anche per il loro stesso “padre”. Un telo nera traforato divide la platea dal palco dove ci sono anche un microfono anni ’30, una sedia ed un tavolo sulla cui superficie si scorgono un bicchiere, una bottiglia (probabilmente di whisky, finto) ed un vassoietto con delle fette di pane biscottato ed un coltello. Poi le luci si spengono e nella piccola ed intima sala del teatro Studio Argot risuona “Siamo Qui” di Vasco Rossi. Hic et nunc: tutto ha senso ora e tutto accade in questo esatto momento.
Una flebile luce illumina il tavolo ed una voce registrata (quella dell’attore) inizia a raccontare. Leopold Bloom, seduto al tavolo ed imburrando le fette di pane, inizia ad elencare quello che dovrebbe fare nella sua giornata, chiama ripetutamente la moglie Molly dicendole che è pronta la colazione o chiedendole se le serve qualcosa perché lui sta per uscire. Si alza e cammina e man mano che le sue parole avanzano, sulla parete alle spalle dell’attore inizia a disegnarsi una stanza: siamo in una cucina illuminata da una calda luce che proviene dall’esterno. È la realtà virtuale che guida tutti gli spettatori nei luoghi della memoria di Leopold: siamo in una birreria con i suoi protagonisti che discutono, o ancora in una stazione con i treni in movimento o tra i vicoli di una città dell’oriente. E poi ancora gli odori, i profumi ed i dettagli talmente nitidi che riescono a trasformare il ricordo di una donna in una presenza quasi reale: Gerty MacDowell è solo nei pensieri di Leopold o è anche qui davanti a noi? Ancora una volta ci aiuta la realtà virtuale ad immaginarla con i suoi vestiti eleganti ed il suo cappello a falda larga decorato con un fiocco. Grazie a questi ricordi così forti, assorbiti talmente tanto dal protagonista, i luoghi e le donne, con la geometria dei loro corpi, la sinuosità delle loro forme e l’intensità dei loro profumi, diventano più nitidi di una fotografia. Il luogo della narrazione è mentale, metafisico e a tratti onirico; uno spazio che diventa casa per questi pensieri dove musica, parole ed immagini camminano insieme all’interno di un viaggio che unisce passato e presente, ricordi e desideri, nostalgia, malinconia e fragilità.
Un’ultima riflessione, intensa e profonda, pronunciata dal microfono anni 30 da un (inesistente) pulpito, illuminato da un cono di luce, che vuole sottolineare l’aspetto introspettivo di quello che si sta ascoltando: ci sono pensieri di morte, di solitudine, e ci sono anche i Joy Division e la loro Atmosphere che accompagnano musicalmente questi ultimi ed intensi minuti.
Poi le luci si spengono e ritorna sulla scena Maurizio Panici che sveste i panni di Leopold Bloom e ringrazia con profonda commozione la platea che, questa sera, ha scelto di viaggiare e sognare con lui. Di viaggiare non solo nei pensieri di Leopold ma in quelli di ognuno di noi.
In quelli di persone qualunque.
Alessandra Miccichè, Roberta Matticola 23/03/2023