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Robert Wilson-Heiner Müller: “Hamletmachine” o della ripetizione immobile e mutevole

Il Festival dei Due Mondi di Spoleto, alla sua sessantesima edizione in questo 2017, ha regalato diversi momenti di alto profilo artistico, tra concerti, incontri e soprattutto spettacoli. In questo senso, oltre alla nuova produzione di Emma Dante, “La scortecata”, e il concerto di chiusura, con la “prima volta” nella cittadina umbra del Maestro Riccardo Muti che ha diretto la sua “Orchestra Giovanile Luigi Cherubini” – che dal 2004 regala piccoli diamanti d’interpretazione musicale – grande curiosità e sicuro interesse ha destato la ripresa, dopo ben trentuno anni dalla prima rappresentazione (1986) sul palcoscenico della New York University, di “Hamletmachine” del drammaturgo tedesco Heiner Müller per la regia di Robert Wilson. Pensato nel 1977, dall’incontro tra i due in America, si dovette aspettare nove anni prima di vedere la luce della compiutezza teatrale. Consapevole della capitale importanza che ha rivestito – e per certi versi continua ad avere – questo iconico spettacolo per tutto il mondo dell’arte performativa, il Festival ha deciso di commissionare al regista texano una nuova première con la partecipazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” con l’arte dei suoi allievi attori.Hamlet1

Regista, drammaturgo, scenografo, light e sound designer – e molto altro ancora – Robert Wilson ha creato e nutrito nel corso degli anni un suo particolarissimo tratto distintivo, un “mondo meraviglioso” che ha fatto dell’inter-medialità uno dei suoi pilastri con cui spaziare dalla lirica alla prosa, dalla visual art alla performance tout court. È quello stesso mondo che, per chi conosce un poco l’opera di Wilson, ritroviamo subito entrando nella sala convegni del complesso monumentale di San Nicolò dove, per nove sere, è andato in scena quel dialogo con l’universo estetico e politico completamente differente di Müller, emerso dalle macerie di una politica culturale fortemente segnata dalla guerra, dal pessimismo e dalla separazione di un mondo oramai collassato. È un testo tanto breve – cinque quadri – quanto denso che si avvicina solo liminalmente alla storia del giovane principe di Danimarca – come il titolo lascia intendere – per deformarlo a un grado di de-strutturazione tale da condurlo verso un’implosione inesorabile. Una “macchina” che Wilson pensa come un dispositivo, un ingranaggio che ruota su se stesso, qualcosa che si muove grazie alla posizione precisa di ogni sua parte, ogni elemento scenico sempre uguale in una ripetizione continua ma mutata nella prospettiva. Infatti è come se sul palcoscenico si sia aperto davanti a noi una delle quatto facce laterali di un cubo immaginario permettendoci di sbirciare all’interno e farci scorgere un tavolo, un albero, delle sedie, una parete bassa e quei personaggi che dal proscenio si alzano per animare il racconto, o forse, semplicemente, tentare di entrare in un momento ben preciso della Storia. Si procede appunto per quadri, sempre uguali: una partitura visiva e sonora sottolineata, da una parte, dall’inconfondibile luce azzurra “wilsoniana” che, nel suo essere impalpabile e metafisica, diventa presente in virtù della sua capacità di farsi significato plasmando, rendendoli staticamente plastici, i corpi degli attori; dall’altra al rumore-segnale di due legnetti percossi a vicenda, che danno avvio all’azione scuotendo quell’immobilità di fondo cullata da una musica anch’essa ripetitiva, minimalista, che ci riporta alla memoria una certa poetica della sottrazione, del “minimo” appunto, di Philip Glass – con cui il regista ha collaborato per “Einstein on the beach”, altro piccolo esempio di meccanismo a orologeria preciso e ossessivo.

Hamlet5In questo impianto scenico logico e rigoroso, si dispiega un percorso che inanella una serie di suggestioni sensoriali, «pensieri che succhiano sangue alle immagini» che permettono di trovare un equilibrio di fondo in quell’artefatto – inteso come qualcosa che percepiamo – che ci troviamo di fronte, in bilico tra oggetto estetico e oggetto artistico. Si mette in scena un paradosso: la libertà di azione nella costrizione di un mo(vi)mento ripetitivo, un tentativo – o la ricerca di questo – di «fare a pezzi gli strumenti delle prigionia», urla mute che fendono l’aria per raggiungere il cuore di un tempo-spazio dilatato, provando a forzare da dentro, con un altrettanto sistema meccanico, la struttura del semplice gesto, mettendolo in mostra – una posa, una mano che si alza, una testa che si gira all’improvviso, un salto, uno sguardo.
Nulla sembra procedere verso un punto e le immagini ricorrenti a cui siamo sottoposti per tutta la durata dello spettacolo – pensando a un consapevole Wilson che ci conduce per mano fino al limite massimo della nostra “sopportazione” – manifestano a tratti, sì, l’ombra dell’artificiosità ma che, alchemicamente, viene in certa misura travalicata da un grado di poeticità visuale che non può lasciare indifferenti, tanto più se gli allievi attori sono riusciti a restituire tutta l’eleganza del movimento, il rigoroso studio e, perché non dirlo, l’amore che nutrono per questo lavoro. Certo è che lo spauracchio della noia – o di una certa “depressione” emotiva dovuta alla ripetizione insistente – sta sempre lì in agguato, con il pugnale tra i denti, pronto a sferrare il suo fendente su noi spettatori: ma forse la si può allontanare perdendo quell’innocenza nello e dello sguardo quando, ancora una volta o per la prima volta, affrontiamo il mondo di Robert Wilson, senza fermarci a metà del cammino, come quel personaggio-statuina dorato che alla fine ci chiuderà, con un sipario bianco, l’unico spazio aperto su quel tempo immobile, ri-scuotendo, per l’ennesima volta, il nostro immaginario.

Marco La Placa 17/07/2017

Foto: Lucie Jansch

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