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I "Giudizi Universali" trentini: Cavosi e l'incessante pioggia che distrugge il nostro mondo

ROVERETO – “C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”. (Fabrizio De André)
“Amo la pioggia, lava via le memorie dai marciapiedi della vita”. (Woody Allen)

L'idea è interessante, il format ampiamente replicabile, il risultato, non scontato, convincente e pieno: due giovani realtà trentine testarde ed energiche, TeatroSpettacoli e Evoè!Teatro (unite sotto la puntuale organizzazione di Daniele Filosi), hanno dato in mano a due registi interni, Maura Pettorruso e Clara Setti, e a due registi esterni, Stefano Cordella (Oyes) e Giacomo Ferraù (Eco di Fondo), di entrare nelle pieghe dei mondi creati dalla parole, dalle immagini, dalle suggestioni che Roberto Cavosi ha saputo trarre dalla cronaca redigendo il suo Teatro Giornale. L'autore meranese, intorno agli 008395-evoe.jpginizi del 2000, per la radio, prendendo spunto da fatti realmente accaduti, scrisse una sorta di “Novelle per un anno” pirandelliane, e qui ne sono state scelte quattro con il titolo complessivo di “Giudizi Universali” con cinque attori coinvolti nei vari quadri.

In un'atmosfera cupa di chiaroscuri, fumettistica alla Gotham City, allarmante e preoccupante come “Sin City”, se da un lato è tangibile il grande senso di frustrazione, questa massa di cappa che sta per abbattersi sull'Umanità, questo fango che tutto sta per travolgere, la Fine imminente che sta montando come un torrente in piena, dall'altro sono i colori, leggeri e grotteschi, a rendere il plot fiabesco, a donare quel ricamo di surreale che tranquillizza e inquieta, pacifica e punge. Di fondo, come tappeto sonoro, questo grande scorrere di liquidi che vengono giù a cascata, come il rompersi di cateratte, come alluvioni ad incedere e travolgere, come ghiacciai perenni a sciogliersi e diventare violenza e distruzione. E' il mistero dell'esistenza il protagonista sotterraneo, camuffato da Dio biblico, o da Natura matrigna, che resosi conto della piega e della deriva che ha preso l'Uomo, ha intenzione di dare un colpo di spugna e ricominciare da capo l'evoluzione della specie, che noi abbiamo fallito.

Addio-alle-armi_imagefullwide.jpgL'acqua ci accompagna minacciosa in questo viaggio itinerante (ogni piece della durata di circa 20 minuti in quattro spazi differenti) che ci porta nelle stanze segrete del Museo d'arte contemporanea Mart. L'acqua che è pulizia, l'acqua che fa tabula rasa, l'acqua che è cimosa sul gesso della lavagna millenaria degli ominidi. L'acqua come punizione divina, come lacrime non versate per i nostri crimini, scempi, reati, insensatezze, stupidità. Mistero, acqua e morte. Forte è la sensazione della caduta, quella sospensione, la nostra condizione su questa terra, quello stato di attesa e allerta perché sappiamo che prima o poi qualcosa di irreparabile accadrà. Vengono alla mente il Vajont o il novembre '66 di Firenze, perfino il Titanic o lo tsunami.

Se nel primo, “Velocemente lento” (ci ha ricordato “Non buttiamoci giù” di Nick Hornby), regia della Setti, quattro figure percorrono le nevrosi del loro tempo ignare di quello che uno di loro ha deciso di compiere (ha lievità e grazia, ma senza melodramma, il bravo Emanuele Cerra fluttua sul suo sgabello agognando, ma anche rappacificato, lo schianto al suolo). Con il fiato sospeso, beviamo i secondi nell'ansia ineluttabile di quel presente futuro che si sta facendo, da ipotetico, reale. In apnea attendiamo impotenti (come gli uomini che non hanno potere né sulla propria nascita né, nella maggior parte dei casi, sulla propria morte) e rimaniamo incastrati in questa parentesi nell'attesa che si compia il progetto, noi pedine di disegni imperscrutabili più elevati e incomprensibili, noi miseri fantocci di carne fragile e ossa tremolanti. Rumori di fondo, eco di sub e bombole ansiolitiche sottomarine, respiro e rantolo, sciaguattare e sciabordio, pioggia a fendere il cielo strappato.

Stupisce “Uno per quattro”, sorprende la regia di Cordella, che ci apre alla visione il caffè del museo dove al suo interno, al di là del bancone si affollano le varie personalità che albergano dentro il barista (Cerra, in palla, Stefano Detassis in forma; scoppiettante Marta Marchi), dalle teste di asino, pesce, uccello in un'ambientazione a metà strada tra David Lynch e “American Psycho”, Cronenberg e Bergman, fino a qualche tocco alla Hitchcock. E' la normalità, nei testi di Cavosi, che non ci lascia tranquilli, questa nevrosi che scorre sottopelle, quell'ordinarietà che, giocoforza, squilibra e travolge, quel perbenismo di convenzioni stabilite e orari precisi, di caselle da riempire e ordini da rispettare. Siamo tutti prossimi al crollo verticale come questa pioggia incessante. “Non può piovere per sempre” diceva il protagonista ne “Il Corvo”, qui quest'assioma sembra dissolversi. Tutto straripa, deborda, esonda, trabocca.ROBERTO_CAVOSI-autore-teatro_imagefullwide.jpg

Ts_Giudizi Universali_ph Francesca Ferrai (1).jpgMalinconia, ansia e nostalgia, mentre tutto attorno cade o si stinge, si scioglie o crolla (cede l'Occidente, cedono le religioni, le certezze, la famiglia, il capitalismo), sono i perni di “Acqua a Nord-Ovest”, regia piena di spunti e linfa della Pettorruso, dove tre personaggi stanno sul loro cucuzzolo claustrofobico, come orsi polari sul pack che si sta sciogliendo, mentre tutt'attorno si trasforma in maceria e viene portato via dalla corrente. Un mondo in disfacimento, allo sfascio, in decadimento, che si sta logorando e sbriciolando come cracker, sgretolando e sfibrando in poltiglia. L'incertezza regna sovrana, tutto sta per essere polverizzato e si rifugiano nella lettura consolatoria di notizie passate e già accadute che non salvano né sollevano ma almeno aiutano a non pensare all'imminente tracimazione. L'ultimo, “Il bacio dello Stura”, regia di Ferraù, chiude il cerchio della narrazione a tinte apocalittiche-catastrofiche, con la conturbante, disarmante e disturbante immagine di infinite bare che si avviano all'orizzonte quasi in una gara galleggiante tra cadaveri verso la palla del sole che sta tramontando. Dopotutto, diceva Calvino, “la fantasia è un posto dove ci piove dentro”.

Visto all'Auditorium Fausto Melotti, Rovereto, il 20 aprile 2018

Tommaso Chimenti 22/04/2018

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