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Roma: al teatro Vascello "Gabriele Lavia legge Giacomo Leopardi": quando la poesia fluisce come un racconto

«Le poesie di Leopardi sono talmente belle e profonde che basta pronunciarne il suono, non ci vuole altro. Da ragazzo volli impararle a memoria, per averle sempre con me. Da quel momento non ho mai smesso di dirle. Per me dire Leopardi a una platea significa vivere una straordinaria ed estenuante esperienza. Anche se per tutto il tempo dello spettacolo rimango praticamente immobile, ripercorrere quei versi e quel pensiero equivale per me a fare una maratona restando fermo sul posto». 

In realtà Gabriele Lavia fermo e immobile sul posto ci resta poco durante “Lavia legge Giacomo Leopardi”, in scena al Teatro Vascello. Cammina, si siede (una sedia è tutto ciò che è presente in scena), si alza, va avanti e indietro, comunica col pubblico, lo incita a recitare con lui. Definisce il poeta di Recanati un «genio assoluto», capace di scrivere poesie paragonabili a canzoni jazz per il loro librarsi e rimodularsi continuo, per la loro libertà metrica.

Quello dell'attore e regista per Giacomo Leopardi, autore di liriche e sonetti indelebili nella memoria collettiva e nella Letteratura, è un amore più volte dichiarato apertamente. La conoscenza e lo studio, iniziati sui banchi di scuola, sono poi proseguiti autonomamente negli anni, fino a stringere un legame sempre più forte con le parole del poeta, col suo immaginario, con l’intensità e la profondità della sua produzione.

È per questo che Lavia non si limita a leggere o interpretare o recitare. Lo spettacolo, di cui è creatore e protagonista unico, è presentato in una chiave molto personale, quasi un racconto a tu per tu col pubblico, un voler sondare l’animo umano attraverso questi versi porgendoli come un regalo, non ostentandoli come un vanto. Un omaggio insomma, che va da “A Silvia” al “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” passando per Gabriele Lavia 1Il passero solitario”, “Le ricordanze”, “La sera del dì di festa” e “Il sabato del villaggio”.

A questa poesia, scritta nel 1829, Lavia affida l’apertura dello spettacolo. È in realtà un componimento appartenente all’ultimo Leopardi, eppure è talmente rappresentativo e fresco nella mente di tutti, da essere scelto come primo. 'Dice' la poesia parola per parola, verso dopo verso. Fa sì che lo spettatore possa quasi vedere coi suoi occhi la donzelletta, la vecchierella, il garzoncello scherzoso, quasi toccare e annusare il mazzolin di rose e viole, quasi udire il martel picchiare, riprodotto battendo i piedi sulle assi del palcoscenico.

Questo ricorrere a scene di vita paesana, ritratti di campagna, questo menzionare piante e animali, ha fatto di Leopardi quasi una voce fuori dal coro a suo tempo, quando i suoi contemporanei erano alle prese con gli alti ideali dell’amor di patria e dell’eroismo, con le questioni della lingua e dell’oppressione. Lavia si sofferma molto sulla quotidianità di queste immagini proposte (il passero, il falegname, il pastore, la lucciola, la siepe e così via…) esplicandone i significati più profondi. Non manca di sottolineare l’armoniosità musicale di certi versi, frutto spesso del semplice susseguirsi di vocali (Dolce e chiara è la notte e senza vento).

A chiudere “Lavia legge Giacomo Leopardi” è “L’infinito”, recitato dall’interprete (per sua stessa volontà) insieme al pubblico perché, ammette, dire’ certi versi a volte è impossibile per un uomo solo: c’è troppa grandezza da esprimere.

E poi una raccomandazione: quella di essere presenti anche a “Il sogno di un uomo ridicolo” (di Fedor Dostoevskij). «Non facciamoci riconoscere!» dice a proposito dello spettacolo che lo vedrà nuovamente sul palcoscenico del Teatro Vascello sabato 7 e domenica 8 aprile.

 

Giuseppina Dente 06/04/2018