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Fujairah International Arts Festival: deserto, teatro e futuro

Gli Emirati Arabi Uniti sono, nell’immaginario comune, il Golfo Persico e il deserto; i cammelli e il petrolio; la scintillante Dubai, con la sua continua espansione a macchia d’olio (a ottobre dovrebbe iniziare l’Expo se la situazione legata al Coronavirus migliorerà) e i grattacieli che si battono per record di altezza da un anno all’altro (è adesso in costruzione la Iconic Tower di Calatrava, che diventerà a fine 2020 l’edificio più alto del mondo con i suoi 1330 metri), capace di attirare turisti e investitori da tutto il mondo; o la capitale Abu Dhabi, sede di una delle moschee più importanti al mondo e della “succursale araba” del Louvre (le due maggiori attrazioni della città). fuj2.png
È in questo sfarzoso clamore, in questa bolla lucente che l’emirato di Fujairah trova lentamente spazio, al di fuori del turismo internazionale di massa, facendo crescere i propri beni culturali con intelligenza e una visione futura aperta anche agli altri linguaggi e alle arti provenienti da tutto il mondo. Raggiungere questo angolo di terra esotico, incastonato tra le due parti dell’Oman e affacciato sull’Oceano Indiano (l’unico dei sette Emirati), richiede quasi due ore di auto da Dubai, tra strade dritte e veloci che attraversano terre bruciate e montagne. Ti aspetteresti il deserto, invece trovi rocce, un mare selvaggio e un vento che soffia quasi di continuo.

Qui nasce il Fujairah International Arts Festival (diretto dal virtuoso e dinamico Mohammed Saif Al Afkham), al quale siamo stati invitati a fine febbraio 2020, un festival che intendere creare un ponte ideale tra la cultura araba e l’Occidente, soprattutto quello teatrale (“Fujairah brings us togheter” è stato il leit motiv che ha caratterizzato tutta la rassegna). La terza edizione del festival (ha cadenza biennale) si compone ad oggi di due parti, due programmi che hanno diversa natura ma che ben si bilanciano e completano per numero di spettacoli e focus: la prima, di matrice musicale, ha visto alcune stelle della musica moderna e pop araba animare il maestoso palcoscenico centrale allestito nella capitale Fujairah, con due performance giornaliere per tutta la settimana della rassegna (20-28 febbraio); qui abbiamo assistito alla cerimonia di inaugurazione del festival, un vero e proprio musical con un imponente corpo di ballo, performer e celebri cantanti (non sono mancati i fuochi d’artificio) che hanno ben saputo raccontare la nascita degli Emirati Arabi Uniti e, nello specifico, le bellezze dell’Emirato che ci ha accolto.
Ma ciò che ci fuj3.jpgha interessato e riguardato da vicino è stato il “Monodrama Festival”, l’altra parte della grande kermesse internazionale, un festival nel festival che esiste da molti più anni (quella del 2020 era la decima edizione) e che, gettando uno sguardo soprattutto alla drammaturgia europea e asiatica, ha facilitato quel processo di apertura e dialogo con le altre parti del mondo di cui oggi si vedono i primi risultati.
Il Monodrama (termine che in Italia non viene utilizzato e che va a definire nello specifico le pièce drammatizzate per un solo attore) ha coinvolto l’intera cittadina di Dibba (a un’ora di auto da Fujairah) con i due teatri-centri culturali posti l’uno di fronte all’altro, una piccola sala allestita per gli incontri con gli attori a fine di ogni spettacolo (attività interessante e ben pensata) e, soprattutto, un vero e proprio raccolto villaggio del festival con poltroncine, sedie e divani a fronte del contenuto palco per le performance all’aperto, circondati da un assaggio di mondo arabo: bancarelle con artigianato locale fatto dalle donne del posto - tutte con il volto debitamente coperto dal boregheh, una sorta di maschera metallica a celare occhi e bocca – così come una serie di piatti tipici, soprattutto dolci, che venivano offerti insieme al caffè turco, al the, al latte aromatizzato allo zenzero o al timo. Un ambiente informale e rilassato, vero punto di forza del festival, che ha permesso anche ai molti ospiti internazionali (oltre 40 operatori provenienti da diverse parti del mondo tra cui Germania, Inghilterra, Spagna, Stati Uniti, Mongolia, India, Filippine, Russia, Armenia, Giappone solo per citarne alcuni) di costruire una piccola rete fatta di comunicazione, conoscenze e confronto.
Il Monodrama Festival ha presentato una media di due spettacoli al giorno (tutti della durata massima di un’ora) a cui si sono aggiunte altrettante performance all’aperto con canti e balli folkloristici (quasi tutti di provenienza araba). Per una mancata comprensione del testo non parleremo degli spettacoli in lingua araba, abbiamo visto pièce di attori provenienti dalla Tunisia, Egitto, Bahrain, Algeria, Palestina, Iraq, dagli stessi Emirati; l’assenza dei sottotitoli è stata penalizzante e certamente una buona pratica da rivedere per le prossime edizioni della manifestazione. Abbiamo deciso quindi di concentrarci sui tre spettacoli che hanno lasciato un segno positivo nella nostra personale memoria del festival; menzioniamo comunque la presenza di molti spettacoli internazionali (Grecia, Russia, Filippine oltre a quelli di cui parleremo) che hanno offerto una panoramica sfaccettata delle più diverse produzioni di monodrama estere.

Tra tutti, a nostro parere, ha spiccato il volo “At home with Will Shakespeare” dell’esperto e magnetico attore inglese Pip Utton, capace, in questo spettacolo, di creare Pip-Utton-Will-Shakespeare_a899a98a8dbdaa5d41c8feeb2501e281.jpgun incantevole ritratto umano del grande drammaturgo. Shakespeare fa spazio a William in questa scena densa di sentimenti, paure, desideri, ricordi, amori, aspettative, delle sfumature che non immaginiamo; i personaggi delle sue opere diventano lo specchio delle persone che hanno caratterizzato la sua vita e viceversa in un continuo rimando tra vita e dramma che qui si mescola sapientemente e ci ammalia. Il piccolo teatro di Dibba si trasforma per una sera nel magico Globe londinese e gli spettatori viaggiano sul filo di una dimensione temporale inaspettata, oscillando tra il 2020 e la fine del 1500, immergendosi nella narrazione come fossero realmente ospiti a casa del Bardo.
Utton manipola con delicatezza e piglio la scena, la adatta con sicurezza alla sua messinscena, scende in una platea che diventa l’universo dei suoi personaggi e, al tempo stesso, l’universo di un pubblico eterno. La sua è una interpretazione vibrante, ironica, coinvolgente, che ha saputo restituirci con pulizia e essenzialità un testo originale e creativo. Lo spettacolo certamente più apprezzato anche dal pubblico locale.

Altra messinscena di grande spessore artistico e drammaturgico è stato “Buddha In The Attic” della lituana Birute Mar, tratto dal romanzo omonimo di Julie Otsuka.birute-manilla-3.jpg L’aspetto forse più importante di questo spettacolo è stato quello di portare alla luce la storia sconosciuta ai più delle donne giapponesi che, all’inizio del secolo scorso, partivano per gli Stati Uniti per sposare degli uomini connazionali emigrati in precedenza, visti soltanto in fotografia, di solito false, e che dopo Pearl Harbor sono state vittime di discriminazioni e vessazioni e di una deportazione di massa. Erano le cosiddette “spose in fotografia”, vittime della loro stessa illusione di una vita migliore, di un sogno infranto da subito.
“Buddha In The Attic” è un racconto corale, un racconto umano e spietato, fatto di memoria, di polvere e salsedine che l’attrice, creando un ossimorico contrasto, rende con delicatezza e precisione il testo asciutto, privo di compiacimento, scarno e lirico al tempo stesso.
Birute Mar diventa la voce di una pluralità di esperienze e reazioni, di un “noi” sconosciuto, ne diventa anche il corpo, leggero e esile. L’uso del corpo, dei movimenti cadenzati e lenti (ci ha ricordato la tradizione del giapponese Teatro nō), controllati ma potenti è infatti fondamentale nel tratteggiare le vite costrette, prima, e distrutte poi di queste donne, la tenerezza, la vergogna, la paura, la disperazione dettata dall’odio e dall’emarginazione, il senso di abbandono.
Un gioiello raro di minuta bellezza.

Concludiamo il nostro personale podio con “Untouched” della compagnia Inter Act Art proveniente dallo Sri Lanka; uno spettacolo che merita certamente una menzione sia per le differenze etniche e religiose in cui è nato sia per il tema delicato che affronta: matrimonio in crisi, tradimento, divorzio, tentativo di emancipazione della donna, questioni impossibili da sostenere in una società come quella dove opera e vive il gruppo teatrale.
Una Donna, un Uomo e l’Amante di lei, il gioco a tre è classico e in certi passaggi forse anche un po’scontato: la protagonista (l’attrice in scena) sogna una vita diversa e un amore che la coinvolga e la travolga mentre il marito, un medico impegnato e spesso lontano, la trascura e la mette in secondo piano. L’arrivo di un paziente del marito nella loro casa stravolgerà tutto e le farà conoscere i lati belli ma anche quelli oscuri e distruttivi di un amore passionale. Untouched.jpg
La storia la conosciamo e, forse, la prevediamo anche un po’, infatti nonostante la scrittura sia lineare e sostanzialmente scorrevole, una volta messa in scena pecca un po’ di ingenuità, diventa facile anticipare le mosse e l’epilogo di alcune situazioni; inoltre l’uso di voci fuori campo a rappresentare i due personaggi maschili rallenta e a volte appesantisce la narrazione.
Nonostante queste leggerezze, l’attrice è stata convincente e incisiva nel tratteggiare l’esistenza altalenante del suo personaggio grazie anche a una buona padronanza del linguaggio del corpo e a una giusta credibilità scenica; ma ciò che ci ha colpito maggiormente è stata la costruzione di una scenografia di grande impatto sia estetico che di significato: tre piccoli igloo coperti da una rete sono il mondo in cui vive la donna, in cui si muove, in cui danza, immagina, sogna. Dentro è la casa, il matrimonio, sotto la rete che tutto copre e protegge al tempo stesso, che trattiene e opprime, la nostra protagonista vive una quotidianità sì rassicurante ma che a lungo andare la schiaccia, le toglie il respiro, mortifica la sua femminilità. Fuori, invece, in una dimensione da conoscere, scopre l’amore carnale, una realtà sconosciuta e certamente meno pacata e tranquilla ma che la libera. Dentro implode, fuori esplode. La rete diventa il diaframma della protagonista, il livello dei respiri, il limite delle sue prigionie (anche la relazione con l’amante lo diventerà), il vincolo al sacramento e alla sua condizione di donna (emozionante, in questo senso, l’immagine finale).
Uno spettacolo genuino e contemporaneo.

Lancia il tuo cuore davanti a te, e corri a raggiungerlo” recita un proverbio arabo e noi sembra adeguato nel definire in poche parole il senso e la volontà che hanno mosso il Fujairah International Arts Festival nel costruire coraggiosamente un ponte verso il futuro. Le tradizioni qui ci sono e ne sentiamo tutto il peso ma la spinta verso l’esterno, l’apertura e il richiamo verso la bellezza della diversità, linguaggi sconosciuti e realtà nuove da conoscere hanno saputo lanciare il cuore ancora più lontano.

Giulia Focardi

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