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“Fratellina”: Scimone e Sframeli, gli ultimi, gli emarginati, i rifiutati

PRATO – Lo stato di grazia per Scimone e Sframeli non fa più notizia, è la normalità, è una condizione che trapassa e attraversa tutta la loro produzione. Ma c'è stato un crack negli ultimi anni che ha fatto esplodere le loro messinscene da “Pali” passando per “Giù”, toccando “Amore” fino a questo nuovo “Fratellina”. Una nuova e più vitale consapevolezza, una freschezza che abbina la loro cifra impastata di beckettismo claustrofobico nero e senza orizzonti ad una forma leggera, pennellata e pastellata, corroborata da una dolcezza sparsa che ammanta la durezza dei temi, la brutalità del vivere perennemente in stati d'emarginazione dei loro personaggi. Fratellina-ph-Gianni-Fiorito-imm.jpgA pieni polmoni si può sentire il respiro del teatro, quel benessere di fronte a qualcosa di unico, un equilibrio potente e delicato allo stesso tempo che ci risveglia, ci anima, ci scuote nel loro lento incedere dialettico, nelle loro ripetizioni rafforzative che ci fanno scivolare in un vortice di senso dove la parola si apre e diventa carne e si fa tattile, dove i semplici termini usati si illuminano e scardinano piani ordinari esistenziali. L'impianto è sempre un qualcosa di chiuso, di laterale, di marginale, di fuori dal Sistema, con una scenografia da abitare energica e possente carica di significati (di Lino Fiorito), non mero oggetto ma soggetto dialogante tout court con la drammaturgia.

In “Fratellina” (prod. Teatro Metastasio) due letti a castello, l'uno di fronte all'altro, si affacciano sulla solitudine, su un'angoscia senza lamentazioni e proprio per questo ancora più lancinante. Personaggi che non chiedono neanche più aiuto ma se ne stanno rintanati nelle loro case-loculo, schiacciati dall'esterno e dalla condanna e dal controllo sociale con la paura di non essere all'altezza, di non piacere, di non essere capaci, di non essere giusti per poter essere accettati per quello che sono. Nic e Nac (proprio Spiro Scimone e Francesco Sframeli nei loro intercalari pieni di purezza e sempre fautori di stupore; in siciliano l'espressione "Chi nicchi e nacchi" significa "Che cosa c'entra?"), nomi che ricordano soprannomi bambineschi o da favola e giocosi, si sono chiusi nei loro gusci, che sembrano teche da esposizione di rettili (le carrucole e le corde ricordano i cappi dell'impiccato), e vogliono solo dimenticarsi, essere dimenticati e dimenticare. Ma allo stesso tempo chiedono una seconda possibilità e una nuova opportunità per poter ricominciare, forse con regole diverse, e poter giocare nuovamente al tavolo della vita con regole più soft, più light, meno concorrenziali, che la guerriglia là fuori lì ha disorien318173575_8293248677413192_7091565921739215215_n.jpegtati, sviliti e spolpati, consunti e disinnescati.

Vogliono ritrovare i colori che il tempo ha sbiadito, che mondo in bianco e nero gli ha estorto e portato via, succhiato e sputato. Non hanno fiducia in se stessi, “facciamo schifo”, e la loro autostima è sotto i piedi, vorrebbero soltanto un po' di calore e di vicinanza, un abbraccio ristoratore. Hanno paura degli altri, “sento il bisogno di stare vicino a qualcuno ma poi mi viene l'ansia”. Il tono è talmente assurdo che prende pieghe reali e se ne può sentire il dolore e si sente palese la mancanza d'amore e d'affetto che i personaggi cercano inesorabilmente, che rincorrono, che vorrebbero come l'acqua un assetato. Tutto quello che sta là fuori li ha delusi e soprattutto li ha esclusi dal grande ballo e a loro non è rimasto che dormire, in posizione fetale (non hanno avuto amore né dalla madre né dal padre), per far trascorrere un giorno in più sulle loro rughe stanche. Aspettano non sanno che cosa, attendono la fine. Potrebbero essere richiedenti asilo stipati in container o in centro d'accoglienza “a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia a un'altra che non ci vuole”, spiegava mirabilmente Ivano Fossati nella sua “Pane e Coraggio”.

Di fronte a loro 318441901_8293248694079857_5486683273321905786_n.jpegaltri due derelitti umani, rannicchiati nelle proprie brandine, Fratellino (Gianluca Cesale, voce baritonale e presenza robusta) e Sorellina (Giulia Weber d'altissima qualità) come a guardarsi in uno specchio e riconoscersi tra ironie involontarie e quella propensione a non riuscire a capire le dinamiche della vita. E con la naturalezza morbida e garbata e una grazia lieve e tenue con la quale sono caratterizzati i quattro sulla scena cercano i rimasugli del loro posto nel mondo, le briciole avanzate per capire chi sono, chi sono diventati. Sono stati troppo buoni (ci è venuto alla mente Mimmo Lucano ex sindaco di Riace) e la società competitiva, selettiva e agonistica che non ammette la gentilezza, scambiata sempre per sconfitta, ma apprezza l'arroganza e la prepotenza (diventate valori positivi) li ha espulsi, condannati, recintati, confinati. Sono scheletri nell'armadio nascosti ai nostri occhi, sospesi, appartati dentro una parentesi, trascurati, non considerati, fino alla scelta finale che ci ha ricordato il video dei Cure “Close to me”, tutti insieme appassionatamente chiusi in un armadio che viaggia verso un'altra dimensione, o ancora i quattro anziani della pièce “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni” di Deflorian/Tagliarini.

Foto: Gianni Fiorito

Tommaso Chimenti 07/12/2022

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