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I rifugiati senza radici nelle metropoli: tutto è "Fragile!"

MILANO – Siamo fragili nel confronto con gli altri, siamo fragili sballottati come bicchieri di cristallo in un mondo di elefanti dal passo pesante, è fragile la parola ma anche l'idea e il concetto di integrazione, siamo fragili come pulviscolo, granelli di sabbia, coriandoli sparsi a terra dopo l'ennesimo stanco compleanno. Più che altro ci adattiamo alle situazioni, alle contingenze, alle conseguenze, cerchiamo di stare il più comodi possibili (traduzione: soffrire meno) nel mondo che ci viene dato, visto che difficile risulta cambiarlo, tanto vale cercare, sgomitando, di forzarlo, allargarlo alle nostre esigenze, alle nostre debolezze. “Fragile” è quello che è scritto sugli scatoloni e sugli imballaggi pronti a salpare, a partire, per arrivare su un nuovo mercato. Siamo merce, spostata, messa in bella luce, pronta ad essere acquistata, comprata, scambiata. Se da una parte il “Fragile” messo in scena, in prima nazionale, da questa giovane e tenace compagnia milanese, i Caterpillar (fanno riferimento al suo significato inglese, cioè “bruco”, e non cingolato che tutto schiaccia e travolge), parla di integrazione, difficile, complicata sempre in bilico e mai del tutto realizzata, dall'altra è anche una feroce critica all'accoglienza dei rifugiati, al senso di colpa di chi sta e al senso di inutilità e impotenza e sradicamento di chi arriva.Caterpillar 2 - piccola.jpg

Il testo, scritto in inglese dalla croata Tena Stivicic, è un affresco, realistico e pungente, senza scappatoie consolatorie né facili buonismi, tra i sogni di chi arriva (che spesso rimangono carta straccia nell'impossibilità di realizzarli) e la volontà di chi accoglie, uniformando a standard, che anche involontariamente usa le altrui storie lacrimevoli e accadimenti nefasti. Ma come diceva quel famoso calciatore slavo svedese con il naso dantesco: “puoi togliere il ragazzo dal ghetto ma mai il ghetto dal ragazzo”. Roba che ti rimane appiccicata addosso come imprinting, come alfabeto di condotta di vita, come stile relazionale, come abc di comportamento, salvezza, salvaguardia.

Ed è una critica aspra anche alle città-metropoli che alimentano i grandi sogni, il volere è potere, che sia New York o, come in questo caso, Londra, oppure, più vicino a noi, che siano Roma o Milano: “Roma è una puttana” dice Carlo Verdone ne “La Grande Bellezza” sorrentiniana. Città agglomerati di cemento, asfalto e occhi e bocche che arrivano da infinite latitudini a cercare un posto al sole, spazi sempre più ristretti dove, ad imbuto, tutti ci si vogliono infilare ma dove solo per alcuni fortunati, e talentuosi (“Uno su mille ce la fa”), ci sarà davvero un podio dove (so)stare. Le grandi città sfavillanti, quelle che triturano la massa dei pesci piccoli, hanno bisogno che il sogno continui a persistere e lo alimentano come fa il fuochista del Titanic con ciocchi da ardere sempre più scintillanti. Ci vuole pubblicità per vendere il prodotto del “ce la puoi fare”, del “è qui la tua Terra promessa” dove potrai essere ricco e famoso. Invece vai, nella stragrande maggioranza dei casi, ad ingolfare la fila di quelli che aspettano, ad ingrossare le code di quelli che vorrebbero ma non possono. Che i primi hanno sempre bisogno degli ultimi per definirsi tali. La grande città necessita come aria della nuova linfa che solo i poveri hanno in sé, che è la mancanza, il desiderio, la fame, reale e metaforica, la voglia di farcela, che li spreme, li depreda, li prosciuga e intanto li fa correre, comprare, desiderare soprattutto oggetti, merce, status symbol.

Fragile TeatroFilodrammatici 2.jpgUn'assistente sociale neozelandese, ma artista (Denise Brambillasca), un fotografo di guerra norvegese (Umberto Terruso), una ragazza croata che vorrebbe fare la cantante di musical (Valentina Sichetti), un'altra scampata agli orrori e alle violenze subite nei Balcani (Gaia Carmagnani), il proprietario di un locale notturno anch'egli di provenienza slava (Emanuele Arrigazzi), un cameriere serbo ma che vorrebbe fare lo stand up comedy (Edoardo Barbone), una donna delle pulizie slava e cinica (Ilaria Longo). I sogni si scontrano, per tutti, con la cruda realtà del “produci, consuma, crepa”. Sono questi gli ingredienti che si miscelano, guerreggiano, si accapigliano, si mischiano senza mai divenire sostanza eterogenea. Come mischiare acqua e olio. C'è chi chiede asilo politico e rimane un corpo estraneo sospeso rispetto a ciò che era, dove non può tornare, e dove adesso sta, in un limbo che non conosce, del quale ha paura; persone che vengono salvate fisicamente e messe in sicurezza ma alle quali manca, e mancherà sempre, un contatto più intimo con se stessi, con le proprie radici, con chi sono e con chi vorrebbero diventare. Il nodo è il concetto di “casa”.

La regia di Eugenio Fea è veloce, brillante, fedele e in linea rispetto alla poetica dei Filodrammatici milanesi (che lo producono, la traduzione è di Bruno Fornasari) con quadri che si incastrano, azioni veloci che sfumano, si perdono nella successiva, si liquefanno a creare passaggi di senso fluidi e liquidi in un unico continuum temporale attuale, contemporaneo, scorrevole. Gli esponenti del Primo Mondo, la neozelandese e il norvegese, in qualche modo hanno allenato la loro propensione agli altri abusando, anche non del tutto consapevolmente, e “sfruttando”, per lavoro o per creare arte, i rifugiati e disagiati. I bisogni degli uni difficilmente collimano con le esigenze dei secondi. A Londra le opportunità e leFragile TeatroFilodrammatici1.jpg possibilità sono infinite ma “la vita è una merda” perché se non hai money tutto ti è precluso e le chimere e i miraggi rimangono tali dietro i vetri dei grandi magazzini, in mostra ad Harrod's e tu puoi solo stare lì fuori, al freddo, col naso spiaccicato a sbavare su qualcosa, che in definitiva non ti serve, la cui mancanza ti rende infelice ma che se lo avessi non ti renderebbe comunque soddisfatto. Come una Colazione da Tiffany perenne. Non è neanche un coitus interruptus ma proprio negato. E l'insoddisfazione genera frustrazione e rabbia, pentole a pressione pronte ad implodere: “Lottiamo per una vita meravigliosa che chissà quando comincerà”.

Ma è molto più semplice, o l'unica strada possibile e percorribile, continuare sulla via, seppur deprecabile, già tracciata da qualcun altro per noi: la ragazza violentata e venduta come prostituta diventerà essa stessa trafficante di ragazze perpetrando quello che ha dovuto subire e così, in qualche modo, riuscendo ad esorcizzare con il male sugli altri il male che le è stato procurato. Una Londra che ci appare come Gotham City o Suburra piena di “cibo cattivo” e sogni infranti. Il dubbio è se abbiano più bisogno i rifugiati del Primo Mondo o se è l'Occidente che ha necessità dei rifugiati per sentirsi migliore e salvatore. Ne usciamo tutti un po' più critici, un po' più fragili. Il nostro ritratto allo specchio si appanna, si sfà in tanti pixel.

Tommaso Chimenti 02/12/2018

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