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“Fine pena ora”: un giudice e un ergastolano a scriversi lettere per quarant'anni

MILANO – Esiste il “fine pena mai”, l'ergastolo per i più irriducibili e intransigenti criminali, e poi questo “Fine Pena Ora” che il regista sensibile Simone Schinocca ha messo in scena dopo una lunga gestazione. Incuriosito e coinvolto, affascinato e innamorato della storia epistolare tra il magistrato che aveva firmato la condanna e il carcerato (storia reale con i due protagonisti ancora in vita) che si sono scritti per trentotto anni prima di incontrarsi. Dal libro omonimo (ed. Sellerio) scritto dal giudice Elvio Fassone prima ne fu tratta una piece, per la regia di Mauro Avogadro, con Paolo Pierobon nelle vesti del detenuto (prod. Piccolo di Milano), poi Luca Zingaretti provò a trarne senza risultato un lungometraggio e infine il regista torinese della compagnia Tedacà è riuscito a riportare questo strano incontro tra due uomini dai valori agli antipodi al centro di un palcoscenico. Recentemente, a tema carcerario, per il grande schermo è stato girato “Aria ferma” e la serie “Il Re”. Da un lato un uomo condannato per oltre quindici omicidi, dall'altra un uomo probo, proprio colui che ha deciso la sentenza (non certo un “giudice” come lo descrisse De Andrè), che un giorno comincia a scrivere al detenuto aprendo il Vaso di Pandora, scoperchiando un rapporto che va avanti tuttora. Salvatore, questo il nome reale dell'ergastolano, non ha mai chiesto sconti di pena, non si è mai pentito, non si è mai dichiarato innocente, non ha chiesto perdono alle famiglie degli uccisi, non ha mai rinnegato Cosa Nostra, anzi è orgoglioso del suo silenzio, della sua omertà, di non aver mai parlato con7699_2.png la giustizia né aver fatto nomi, di non aver fatto la spia o, come si dice in gergo, “l'infame”.

E' proprio in questo solco tra due mondi distanti e impossibili da far coesistere nella stessa stanza che è avvenuto il miracolo dell'unione fatta di fogli di carta scritti rigorosamente a mano dove due persone di estrazione, formazione, vita vissuta così diametralmente opposta, si sono ritrovati in un terreno comune, il foglio bianco da riempire per raccontarsi, aprirsi, trovare nuove strade di comunicazione, di empatia. In una cella fatta da sbarre di corde con nodi come fossero tanti rosari appesi alle carrucole, corde che sembrano ragnatele o pentagrammi verticali (e i nodi le note) a creare un'opacità che non permette una visuale libera all'interno, un uomo (Salvatore D'Onofrio è pugnace e d'impatto, muscolare e di presenza solida nell'accogliere su di sé questa figura così “estrema”) rantola su una panchina. Intorno a lui si affolleranno visioni e fantasmi, apparizioni della compagna come dell'uomo di legge, epifanie che verranno a trovarlo, affacciandosi a quel mondo claustrofobico e minimale. Un sogno a tratti d'incubo. Un uomo dei clan, condannato in un maxi processo insieme ad altri 250 imputati, che si scrive di nascosto (se si sapesse all'interno dei corridoi del carcere sarebbe come firmarsi una condanna a morte) come ad un'amante segreta. Non si sa se per tenerezza o per senso06_Fine-pena-ora_ph-Emanuele-Basile-scaled.jpg di colpa, sarà proprio il magistrato (in scena Giuseppe Nitti in toga, attento e rigoroso, si muove fuori dalla frontiera di funi e cavi) che lo aiuterà con consigli pratici su come compilare le richieste per i permessi. Un senso di colpa non in quanto mano che ha deciso gli anni di punizione da scontare ma per la fortuna che alcuni hanno di nascere in alcune città e luoghi e in alcune condizioni familiari ed economiche, potendo studiare, rispetto ad altre fasce della popolazione che sono più soggette a cadere in mano, per povertà, analfabetismo e scarsa informazione, alla criminalità. La frase è “Se io nascevo dove è nato lui” che è un mettersi nei panni dell'altro, senza giustificare in maniera buonista le azioni ma considerando le attenuanti e anche che nessun uomo nasce cattivo o sbagliato o delinquente ma è un mix di habitat, famiglia, società e privazioni che lo portano sulla cattiva strada.

Il giudice muove il primo passo sulla scacchiera delle mosse tra i due regalando al carcerato “Siddharta” di Hermann Hesse 04_Fine-Pena-Ora_ph-Mauro-Biondillo.jpgche prima di allora non aveva mai letto un libro e nessuno gli aveva mai donato niente. Scatta qui il rispetto e l'onore tra i due, senza che mai comunque il detenuto scenda a compromessi con l'autorità. Il sempre appassionato, competente e concreto Schinocca (in questa produzione targata Tedacà, Stabile di Torino con Festival delle Colline Torinesi) non fa un elogio del detenuto, non ne fa un'agiografia ma punta la messinscena sugli uomini e i loro sentimenti, su questo incrocio fatto di lettere tra una persona colta e un semianalfabeta che in definitiva sono due facce della stessa medaglia. La gioventù che se ne va, le attese continue, gli spostamenti da una struttura ad un'altra, i rinvii o le cancellazioni dei permessi per fatalità o contingenze, il 41 bis, le visite della compagna (Costanza Maria Frola, in un doppio ruolo, carica di verità scevra da pathos ed enfasi). Quella stessa “moglie” che gli arriva in sogno con l'abito da sposa e che, nella scena più toccante e intima, il tulle soffocherà l'uomo come stretto, asfissiato in un bozzolo ormai inerme, sconfitto. La pena non finisce neanche adesso per Salvatore ma gli uomini cambiano e si può essere “uomini d'onore” anche soltanto scrivendosi lettere.

Tommaso Chimenti 10/05/2023

Foto: Emanuele Basile

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