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Festival Inventaria: i primi respiri del teatro indipendente

La festa del teatro off: dal 9 maggio al 18 giugno il “Festival Inventaria”, organizzato dalla compagnia DoveComeQuando, giunto alla sua VII edizione, calca i palcoscenici dei tre principali teatri alternativi della Capitale: Teatro Argot Studio (Trastevere), Carrozzerie n.o.t. (Ostiense) e Teatro Studio Uno (Torpignattara). 24 compagnie, 14 serate, 11 prime nazionali e 10 prime romane, mantengono viva l’attenzione sulla drammaturgia contemporanea.
Il direttore artistico, Pietro Dattola, sottolinea sin dalla prima giornata quanto dopo la chiusura del Teatro Orologio abbiano dovuto reinventare il festival, moltiplicando l’offerta. Con l’unico grande obiettivo di suggerire più proposte e nuovi linguaggi. Trovare, inventare. Questo è il festival che più di tutti concretizza la freschezza della novità.

9 maggio - Teatro Argot Studio, “Formiche”
Scritto, diretto e interpretato da Saverio Tavano, con Alessio Bonaffini, “Formiche” apre il festival. Lo spettacolo si presenta semplice nella sua complessità. Due uomini, un water, una console e tante (invisibili) formiche. Piccoli,Inventaria2 minuscoli insetti tra i più indesiderati. Tra le travi in legno del palcoscenico dell’Argot si insinuano fastidiosamente tanto da distrarre uno dei protagonisti, fino a poco prima imbambolato davanti alla televisione con un joystick in mano. A nulla valgono le botte sul pavimento, rovesciare per terra nervosamente una polverina bianca o spruzzare chissà quale veleno... se non a distoglierlo dalla sua partita. L’altro siede sul water, piegato in due dal mal di stomaco. Manca l’acqua, scaricare è impossibile e il cattivo odore comincia a farsi sentire. Una chiacchierata sulla densità delle feci apre il dialogo tra i due attori: merda merda! e si entra nel vivo dello spettacolo.
I personaggi interagiscono tra loro ma ognuno rimane concentrato sul proprio discorso, le parole del compagno hanno poca importanza, disturbano. Uno è iperattivo, ossessionato dal capire da dove vengano gli animali: la recitazione concitata dell’attore delinea subito i tratti nevrotici e assillanti del personaggio che si perde in raccomandazioni inutili e ripetitive. L’altro, apatico e stanco, incamera e poi esplode in improvvisi scatti d’ira, tra una scomoda “seduta” e un grido isterico. “Non c’è più nessuno là fuori, siamo rimasti solo noi”: lo scenario esterno è descritto in modo catastrofico, il tempo sembra essere controllato e centellinato da un’alienante desolazione che oscilla tra sottile comicità e apocalittica realtà. I due compagni, così diversi, sembrano gli unici rimasti al mondo. E con loro le formiche, esseri eusociali per eccellenza: due forme di vita in contrasto. Da una parte gli insetti collaborativi, armoniosi nel lavorare insieme e dall’altra degli uomini incapaci di comprendersi e dialogare, nemici-amici poco propensi all’ascolto e all’aiuto reciproco. Lottano contro se stessi, contro l’altro ma contro il nulla. Precari, soli nella tristezza e nell’angoscia, rimangono comunque insieme, uniti, alternando urla a lunghi, imbarazzanti e comici abbracci, sopravvivendo a una guerra sconosciuta. Ci si aspetta che uno dei due sollevi il gabinetto gettandolo contro una finestra, pronto a scappare verso la libertà, sciolto da ogni follia. Non succede ma all’improvviso l’acqua scorre. Qualcuno volò sul nido del... le formiche.

10 maggio – Teatro Argot Studio, “Adda passa’ a nuttata”
Inventaria3Una coppia come tante, al di sopra di ogni sospetto: fanno le parole crociate, leggono il giornale, litigano. Dietro le apparenze c’è però un’atroce verità che non vediamo direttamente ma che possiamo immaginare: dai rumori fuori scena e dai camici insanguinati. È “Adda passa’ a nuttata”, tragicommedia scritta e interpretata da Marco Sanna e Francesca Ventriglia della compagnia Meridiano Zero. Recitato con accento partenopeo (come suggerisce il titolo “eduardiano”) è uno spettacolo a due facce che unisce alto (il rapporto con il teatro e la citazione frequente del “Macbeth” di Shakespeare) e basso (si ode la voce di Antonella Clerici a “La prova del cuoco”, sottolineatura di un pubblico anestetizzato dalla televisione) e che soprattutto vuole mettere a nudo le contraddizioni, le assurdità, le efferatezze della vita famigliare e domestica. Inseriti nella loro quotidianità, così meccanica e prevedibile, i due protagonisti – senza cognizione del tempo e dello spazio - si punzecchiano continuamente in una girandola di battute acide o con giochi di parole - non volgari però un po’ abusati. Sono teneri solo quando – in un finale poetico - si tengono per mano con in sottofondo “La Bohème” di Charles Aznavour. Il registro scelto è quindi prevalentemente quello “basso” in un momento dello spettacolo che vuole essere programmaticamente trash e volutamente fuori controllo perché come dice Marco Sanna «la vita è un'ombra in delirio». A questa linea principale se ne aggiunge un’altra, più “alta”: una riflessione sul mestiere di attori, sul pubblico (giudicato di “ectoplasmi”) e sul teatro in generale (“è una favola raccontata da un idiota”). Una riflessione in bilico tra nostalgia e ironia “anni di sacrificio e gelo, però che bello”, pensieri che avrebbero meritato più spazio e che, in questo continuo oscillare di altitudini (c’è più “basso” – non sempre ben calibrato – che “alto”), sarebbero forse riusciti a dare più equilibrio allo spettacolo. Resta una “tragicommedia” trash comunque ben interpretata: segnaliamo la prova di Francesca Ventriglia, donna caustica e verace, moglie dalla battuta sempre pronta.

11 maggio – Carrozzerie n.o.t., “Follower”
Follower, like e condivisioni. Questi sono solo alcuni dei principi fondamentali di una vita che diventa sempre più digitale. Ma siamo sicuri di vivere una vita vera? Forse no, ma questo non è importante. L’importante è apparire e farInventaria4 credere agli altri di avere un’esistenza unica. Guai a voi a presentarvi tristi, banali, grassi e brutti. Sui social bisogna essere sempre perfetti e mostrare un sorriso (seppur falso) smagliante.
Per essere felici bisogna avere un gran numero di followers. Più sono i followers più la tua vita è straordinaria. Ma cosa accadrebbe se, tramite un’app, un seguace anonimo riuscisse a seguirti anche nella vita reale e non solo sullo schermo?
Attorno a questa domanda si costruisce lo spettacolo “Follower”, scritto e diretto da Pietro Dattola con Flavia Germana de Lipsis. Nina è una ragazza timida e impacciata, decisa a superare la fine della relazione con Pietro grazie a Follower, un’app che le permetterà di dimenticare il suo amore e diventare il centro del mondo di uno sconosciuto pronto a seguirla tutto il giorno. La regola è una sola: intrattenere il proprio follower per ricevere tanti like.
Sembrerebbe tutto molto eccitante, peccato che dimenticare una persona non è così facile. Siamo, infatti, abituati a credere che grazie ai social abbiamo la possibilità di conoscere milioni di persone e poco importa se, per qualche motivo, una sola di queste viene smarrita all’interno della complessa rete di relazioni virtuali. Tutto, però, si complica quando la persona persa è quella che si ama. In quel caso cosa fare? La risposta è semplice: cancellare subito il passato e concentrarsi sul futuro per intrattenere, da bravi giullari social, nuovi seguaci e ottenere molti like.
Attraverso un trasporto coinvolgente, l’attrice confida, a quelli che per una sera sono stati i suoi followers, le speranze e le paure di una ragazza che da sola affronta le oscure acque del virtuale. Uno spettacolo molto attuale, in grado di raccontare con estrema semplicità la complessità di un mondo che diventa, per fortuna o per disgrazia, sempre più innovativo.
Un mondo dove si è soli tutti insieme e dove per piacere bisogna essere se stessi, l’importante è non esserlo mai davvero.

12 maggio – Carrozzerie n.o.t., “Fuga in se maggiore”
Inventaria5Due spazi speculari, due donne, un metronomo che scandisce il tempo. Due bauli attorno ai quali le protagoniste si lamentano, soffrono, si dimenano mentre il pubblico entra nel buio della scena. Un Kammerspiel di implacabile violenza. Le azioni sono cristallizzate, ripetitive, i sentimenti quasi del tutto messi al bando. “Fuga in se maggiore” (scritto, diretto e interpretato da Nathalie Cariolle) è una disperata, impietosa e a tratti allucinatoria cronaca psicologica.
Elena sembra scuotersi come da una trance indotta, pronuncia silenziosamente il nome delle note, le sue dita si muovono su una pallina, è stata una pianista, una musicista virtuosa, una ragazza innamorata. Sara vive i ricordi di giornate sempre uguali, l’assenza e il silenzio della madre, l’affetto del padre e il suo progressivo e fatale esaurimento. Vuole essere liberata, vuole essere autorizzata a lasciarsi alle spalle lo sgomento dell’altra donna, altro sé che considera il mondo esterno come una minaccia costante, dietro a quella maschera di ghiaccio da cui scorge solo i suoi occhi imperturbabili. Ogni gesto, ogni parola le è insopportabile, inutile il talento della figlia, la sua voce piena e avvolgente. Elena ha creato la sua gabbia, un’impalcatura mentale che si è fatta unica via di fuga. La frustrazione ha sostituito, in entrambe, l’ambizione. La perdita diventa un marchio, una forma di destino, causa di una vita non desiderata. La musica, quello strano oggetto capace di trascinarti avanti e indietro nel tempo, inonda di nostalgia e speranza chi resta.
La drammaturgia della Cariolle è potente, acuta quanto quel senso d’angoscia che aggredisce e poi nutre l’anima. Priva di manicheismi madre e figlia sono allo stesso tempo vittime e carnefici di se stesse. Ma i gesti di Nathalie in scena non hanno misura, come quelli della compagna Federica Carruba Toscano, nel ruolo di Sara, sono aggressivi, spesso esagerati. Ogni respiro, ogni movimento è inconsapevolmente esasperato, l’empatia accumulata rischia di scomparire e il dramma di non penetrare, fino in fondo, in profondità.

Silvia Lamia, Lorenzo Misiti, Marilisa Pendino, Francesca Fazioli 14/05/2017