SPOLETO – Difficilmente, in un festival teatrale italiano, è possibile trovare tanta qualità nella stessa giornata in tre spettacoli differenti per concezione, idea, messinscena ma ugualmente illuminati, densi, pieni di riverberi e riflessioni. A Spoleto anche le pietre parlano, i vicoli con gli archetti ti abbagliano, le giraffe installate in città ti danno il benvenuto, il Duomo ci scuote, le affascinanti chiese aprono i loro portoni, i giardini che sorgono in mezzo all'arte e all'architettura ci accolgono. A Spoleto, al “Festival dei Due Mondi”, si è fatta (e si continua a fare) la grande storia teatrale del nostro Paese.
E allora respiriamo, prendiamo a pieni polmoni le atmosfere cechoviane de “Il Gabbiano” (prod. Teatro Stabile Umbria, ERT/Teatro Nazionale, Teatro Nazionale Torino), curato e maneggiato con classe, padronanza ed eleganza da Leonardo Lidi, sempre idee più fervide e mature, che ha creato un dispositivo semplice e leggero quanto efficace con uno spazio vuoto e aperto, scarno in un teatro dal palco divelto, come se non restasse più niente apocalitticamente, con una panchina sullo sfondo dove i personaggi stanno prima di affrontare la loro scena (quindi sempre presenti e visibili) e una panca da giardino in prima battuta dove effettivamente i dialoghi si accendono e si spengono, dove gli addii si sprecano per poi non andarsene più, dove i mai e i purtroppo si sprecano e l'indomani tutto resta com'è senza nessun sussulto.
Tre i punti da sottolineare: in primis la griglia delle luci che prima sta in alto, a metà spettacolo scende a limitare la visuale e a fare da cappa claustrofobica a questo manipolo di pseudofelici che boccheggiano di speranza di vita e novità, e infine la stessa griglia che si poggia a terra, fine delle illusioni, fine delle luci per illuminare il domani, diventando a sua volta sedia dove posarsi oppure ostacolo da saltare. Secondo step: il ballo finale con la musica che lentamente rallenta e gracchia e allo stesso tempo le coppie nella danza si raggomitolano, si raggrinziscono, si ingobbiscono, diventano ad ogni giro di valzer sempre più anziane e vecchie e decrepite in un ballo lunghissimo durato tutta la vita cominciato da giovani e finito tra le rughe senza nel mezzo ricordarsi cosa è successo, cosa abbiamo fatto se non perdere tempo. Terzo ma più importante, un cast d'eccezionale performatività che gioca tutto il suo stato di grazia tra un profondo scollamento dalla realtà, in questo parallelismo della finzione teatrale metafora dell'esistenza dove si entra in scena e si recita un soggetto e un ruolo, e un'ironia volutamente caustica. Dieci attori mirabili, dai movimenti misurati, dagli sguardi centellinati, dalle voci che ti entrano dentro, passi bilanciati in un equilibrio impossibile tra esistenze da trapezisti dove cercare di non cadere (invece che tentare di volare) rimane l'unico vero compito da portare faticosamente, sfibrante, a termine.
Detto che tutti e dieci creano un tessuto e un clima netto e sicuro, tenace e rassicurante, dobbiamo necessariamente sottolineare Massimiliano Speziani – lo scrittore Trigorin, folgorante nelle impercettibili mosse di cuore e intonazione, Francesca Mazza – l'attrice Irina, in perenne ambivalenza tra la durezza e la ricerca di comprensione, Ilaria Falini – Masa, luttuosa depressa che suscita vicinanza, si muove sul filo dell'incomprensione e dell'infelicità, Christian La Rosa - Konstantìn Gavrìlovič, ancora una splendida prova ottenuta con una fitta tela di passaggi portati sulle tavole con una semplicità disarmante, Giuliana Vigogna – Nina, grande forza e delicatezza, sensibilità e compassione. Un cast felice e solare dove sono tutti sull'orlo di un burrone, tentano di salvarsi ma inesorabilmente sono nuovamente attratti come magneti da quel cornicione, da quel limite che sanno di non dover superare senza però nemmeno allontanarsene, non riuscendo a respingere da sé tutto quello che gli sta facendo male anzi riproponendolo meccanicamente per poi lamentarsene. Un vorrei ma non posso all'ennesima potenza, da mancanza di ossigeno, da sentirsi impotenti per l'impossibilità di cambiare il corso delle cose.
E' la metafora del gabbiano che potrebbe librarsi alto, simbolo della libertà, e che invece finisce per farsi uccidere (volontariamente, forse non soppesando i rischi) dalla noia. Tutti insoddisfatti per motivi diversi, ognuno di loro che ci parla, oggi, a suo modo, ognuno di essi che ci guarda dall'abisso del tempo chiedendoci se siamo felici, se stiamo facendo qualcosa per esserlo, chiedendoci se stiamo vivendo o se è la vita che ci sta passando addosso come un carrarmato. La seconda ipotesi è sempre la più facile, quella di non prendersi la responsabilità della propria soddisfazione, potendo sempre contare sull'alibi di addossare le colpe del proprio insuccesso al Fato, al Destino gramo, agli Dei, ai comportamenti degli altri. Quando il dramma ha una punta di (auto)ironia è ancora più feroce e brutale.
Si parla ancora di insoddisfazioni personali nel nuovo lavoro di Rezza/Mastrella, “Hybris” (prod. Rezza/Mastrella, La Fabbrica dell'Attore-Teatro Vascello; coprod. Spoleto Festival dei Due Mondi, Teatro di Sardegna) che risente assolutamente del clima di lockdown e privazioni, di costrizioni dentro le quattro mura domestiche. Oggetto feticcio centrale è una porta, con tanto di stipite, che Antonio Rezza, sempre più funambolo e Puk, in piena forma smagliante, atletico e ruspante, muove e posiziona davanti agli altri malcapitati attori-performer, manichini in carne ed ossa, spalle per far esplodere l'eccentricità disarmante e deflagrante del capocomico felicemente accentratore di parole e movimenti e attenzioni. Come una calamita tutto parte da lui e tutto a lui è rivolto, ogni gesto, manifestazione, angolazione da qui nasce e cresce. Il testo è una sottolineatura, una reiterazione, un loop dove proprio il ripetersi si fa mantra, ci affascina il suono, ci culla per poi, infine, deliziarci provocatoriamente con il suo scatto lessicale ferino, i suoi scarti linguistici selvaggi, la sua semantica intelligente e tagliente.
La porta, in questa riflessione postmoderna, è sia il tramite per raggiungere gli altri come la frontiera per dividersene, il limite di Romolo e Remo, quella linea di demarcazione per indicare che cosa può stare al di qua o al di là del segno convenzionale. Quella porta che negli ultimi due anni abbiamo identificato come salvezza e salvaguardia, per allontanarci dagli altri quali portatori di patologie. Questa porta che si apre infinite volte con violenti e caustici Sbam da fumetto che ancora risuonano nei timpani come scansione ritmica precisa e puntuale, come sottolineatura della battuta, che si chiude altrettanto celermente perché la misantropia è galoppante e l'uomo è sì un essere sociale che ha bisogno degli altri ma la pandemia lo ha profondamente mutato accentuando la deriva di autoconservazione e autoaffermazione scambiando le possibilità della tecnologia e della modernità per progresso. Siamo sempre più chiusi dentro i nostri loculi e abbiamo paura dell'esterno e dell'incontro con gli altri sempre portatori di conflitti e contrasti. Ma che cos'è l'Hybris? E' “l'orgogliosa tracotanza che porta l'uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l'ordine costituito, divino e umano, immancabilmente seguita da vendetta o punizione divina”.
Pecchiamo, abbiamo peccato di poter fare a meno dei nostri simili e così ci siamo inariditi, chiusi nelle nostre celle a doppia mandata. Ma se una cosa non può entrare necessariamente neanche ciò che è all'interno può uscire, quindi lo spazio, fisico ma anche di sguardo e di riflessione sul mondo circostante, si affievolisce, si incupisce, si mortifica. Rezza, sempre surreale e dadaista, vestito da fachiro ipercolorato, quasi mummia che esce dal sarcofago è devastante nella sua fisicità che va di pari passo con una dialettica raffinata, iperaccelerata, sagace e animalesca che si fa gramelot dove perdersi volontariamente ma mai dolcemente: “Siete giovani. Diverticoli” o “Grazie di desistere”, l'apocalisse è qui, è già in atto e non ce ne rendiamo conto. Siamo l'orchestra che continua a suonare sul Titanic ormai in fase d'affondamento. La casa piccola, la casa modesta fino ad arrivare alla casa molesta ovvero alla violenza domestica o la porta che diventa metal detector, la sciagura del guscio che da protettore si fa avviluppante catena e morsa asfissiante. Non sbagliamo, non esageriamo a definire i Rezza/Mastrella geniali, rari, unici: “Stanotte ho pensato a noi due e il fatto che uno dei due fossi io mi ha dato tanta forza”, la tracotanza positiva insita nell'attore, quell'alterigia, quell'arroganza, quella prepotenza, quell'aggressività della quale non vorremmo mai fare a meno.
E arriviamo, alla messinscena di Thomas Ostermeier, “History of Violence”, stratificata, densa, complessa, frastagliata, disarmante. Dalla storia autobiografica dell'autore, il francese Edouard Louis, che racconta la violenza subita, e il trauma conseguente, nella notte di Natale di pochi anni fa. Il libretto parla di stupro ma non è tutto così lineare. La trasposizione scenica del regista della Schaubuhne, come un montaggio cinematografico, ma molto più intenso, è un salto continuo, mai progressivo-temporale mai lineare, dentro le viscere (è questo il caso di dirlo) di questa materia scioccante, drammatica, vitale, pulsante. Ci lascia tante, tantissime domande, nodi da dover dipanare senza risposte. Un teatro politico, non potrebbe essere altrimenti perché non parla di un corpo abusato ma di un corpo che si fa emblema, materia sociologica, campo di battaglia e di studio. La storia è complessa perché il suo andamento subisce continui scossoni ad ogni scena, ad ogni capoverso e quadro, che controbilanciano, spostano, aggiustano, cancellano, quello che precedentemente avevamo pensato di avere acquisito sulla narrazione, scivolosa, pruriginosa, viscida.
Un batterista in scena che storna colpi che scandiscono le parole e gli stati d'animo, il protagonista che diventa narratore in terza persona, altri due attori che impersonificano tutti gli altri ruoli collaterali: un grande lavoro di ampio respiro. Semplificando potremmo riportare che “History of violence” racconta di uno stupro subito. Non è così. Ovvero, questa è solo la patina, la punta dell'iceberg di tutto quello che c'è sotto, perché la realtà non è mai univoca né così semplicistica. Come se fosse un giallo entrano in scena medici e Polizia che si incastrano con tutto il magma di sensazioni del protagonista che ricorda e rivive quegli attimi, prima, durante e dopo, in presa diretta per raccontarli e metterli a verbale. Com'è difficile raccontare a terzi la verità ed essere creduti? In questo spettacolo (e nel romanzo dal quale è tratto) lo stupro sembra essere il grimaldello per scoperchiare molti punti deboli della nostra casa Europa: emerge la dicotomia campagna rurale versus città, mondo etero vs omosessualità, cittadini vs immigrati, destra e sinistra, tutto miscelato dentro una pentola a pressione che non può far altro che implodere.
Edouad, alle quattro della mattina della notte di Natale, al ritorno da una cena tra amici, incontra sotto casa Reda, un affascinante giovane nord africano. Il nostro scrittore ne è attratto ma anche impaurito, l'altro è molto insistente. Lo invita a salire da lui, si fida. Si confidano, si aprono, si amano. Fin quando l'algerino, mentre l'altro è a fare la doccia, non gli sottrae il cellulare. A quel punto, scoperto il furto e chiesta la restituzione dell'oggetto, Reda impugna la pistola, tenta di soffocarlo con una sciarpa e lo abusa. Non è una narrazione di uno stupro ma di una contraddizione. Perché l'abusato, pur odiandosi e avendo gli incubi e gli attacchi di panico e ha il desiderio di farla finita, diventa il primo giustificatore dell'aggressore, mostrando pietà e perdono, mettendo sul piatto della bilancia la povertà e la disperazione dello stupratore. Lo va a denunciare ma non vorrebbe che finisse in carcere in una sorta di Sindrome di Stoccolma reiterata. In qualche modo pensa che la violenza che ha subito sia stata giusta come colpa da scontare della nostra cultura, dolore da patire per equilibrare colonialismo e razzismo e sfruttamento. Che cosa però ci vuole raccontare lo scrittore rimane nebuloso e, ovviamente, tormentato: ci vuole forse dire che la Polizia francese sia “fascista”? Lui, l'aggredito da un tale reato così ignobile e odioso, difende l'abusatore dal linguaggio degli uomini in divisa che nel verbale lo definiscono “magrebino”. Ci vuole raccontare che ha ragione il Fronte Nazionale sulla questione degli immigrati e sulle banlieu? Ci vuole dire che gli extracomunitari hanno il diritto di soverchiarci senza che possiamo difenderci perché corrosi dal senso di colpa? Ci vuole dire che chi viene accolto in Europa ci odia e continuerà ad odiarci perché non si riconosce nei nostri valori e li vuole abbattere (o simbolicamente stuprare, “fottere” una cultura; Houellebecq) e ci disprezza per i nostri comportamenti e le nostre possibilità e libertà? L'Europa sarà spazzata via da questo tipo di ragionamento che tende, sempre e comunque, a vederci come aggressori anche quando siamo stati aggrediti.
Tommaso Chimenti 10/07/2022