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"Eugenia": tre vite diversamente distrutte

GUBBIO – Come un thriller a ritroso per entrare nelle pieghe di una vicenda sepolta nel tempo che nel frattempo è macerata fino alle estreme conseguenze, finché la pustola purulenta non ha raggiunto il suo culmine sbocciando, deflagrando, talmente infetta da scoppiare. Tre storie per raccontare quella di “Eugenia”, tre punti di vista, spaziali e temporali, per approfondire un caso di cronaca (purtroppo reale e simile a tanti altri) che qui diventa esistenziale ed emotivo, interiore e devastante, umiliante e martellante. Tra palazzoni romani di periferia degli anni '60 (da notare che i tre solidissimi attori sulla scena hanno le stesse età dei protagonisti) Eugenia è una bella ragazza che tutti vorrebbero ma che nessuno ha il coraggio di avvicinare. Lei è segretamente innamorata del più timido che ricambierebbe volentieri ma non ha gli strumenti e soprattutto l'autostima per capire di poter piacere, soprattutto alla più bella e desiderabile del quartiere. E intorno c'è il branco, cattivo, sporco, insoddisfatto, frustrato, insensibile. Il branco che, con la complicità del timido che porta fisicamente con una scusa la ragazza in un sottoscala, violenterà la giovane._DSC5584.jpg

La regia di Massimo Verdastro ha sviscerato il testo di Franco Rossi creando un'atmosfera di suspense e noir attorno a questo evento tragico e drammatico che investirà tutti i suoi interpreti senza mollare la presa. Ogni personaggio ha il suo monologo di mezz'ora, prima Eugenia (Mariella Lo Sardo), nella parte centrale lo stesso Verdastro (nel pezzo più concreto) che è il ragazzino che ha permesso lo stupro, l'ultima è il prete (Emanuele Carucci Viterbi) che, pur sapendo la verità, non ha accompagnato la vittima alla Polizia per denunciare l'accaduto. La scenografia essenziale (Pier Paolo Bisleri), tagliata con rettangoli colorati cangianti sul fondale (luci iconiche di Carlo Cerri), vede sei sedie sul palco, come i protagonisti-testimoni-accusati-colpevoli della vicenda, sedie in cerchio, sedie che cadono pinabauscianamente, sedie accatastate in montagne di menzogne e false verità difficili da smontare, sedie di imputati fuggiti davanti alle proprie responsabilità. Eugenia che dopo anni dalla violenza torna nel rione per ricordare a tutti loro, con la sua presenza e il suo sguardo indagatore e minaccioso, ogni giorno, che lei c'è e ci sarà sempre per a rammentare e rievocare ai sei quello che le hanno fatto, Eugenia (questo personaggio ci ha ricordato “I ragazzi di via della Scala” di Ugo Chiti) che alla fine non regge più il peso del silenzio e si suicida (in definitiva non è un suicidio ma un omicidio), gettandosi dal palazzo (in quelle parole d'angoscia abbiamo rivisto le immagini degli uomini che cadono d_DSC5742.jpgalle Torri Gemelle di NY l'11 settembre 2001), e con il suo sacrificio martirizzato fa emergere tutta la polvere messa sotto il tappeto dal tempo, dall'omertà.

Se il primo e il terzo monologo, “Eugenia” e “Il prete ed Elvis”, sono un mix incentrato sulla vicenda ma anche metaforicamente poetici e immaginifici, è quello centrale, “I funerali di Togliatti” (con un Verdastro superlativo; un pezzo che potrebbe veleggiare anche in solitaria), con una scrittura da commedia all'italiana, dove si miscelano sapientemente ilarità e grottesco, dramma e farsa, che dà corpo e sostanza al precedente e al successivo, creando uno spartiacque fondamentale, un ponte e un passaggio non solo per delineare i contorni dell'accaduto ma anche per dare un quadro sociale, politico, geografico, civile, religioso all'intorno, a tutto quello che esulava dal contingente, aprendo tante finestre sul momento, gli anni '60 in Italia, la politica, la morte di Togliatti proprio catarticamente lo stesso giorno dello stupro, il rapporto con il padre che rende calore umano e vicinanza familiare all'interno dell'affresco delittuoso._DSC6038.jpg

Il sottotitolo della piece è “Trittico della gente invisibile”: pasoliniano. Non solo Eugenia è invisibile, e la sua morte forse non farà notizia e non scalfirà le coscienze, ma sono invisibili anche il ragazzino timido, il padre comunista, gli altri bambini-assalitori adesso diventati uomini di borgata, bassi, incolti, gente che ha fatto al massimo numero, quantità e mai qualità con esistenze misere e miserabili alle spalle. La narrazione, a tratti dura e feroce e straziante e difficile da ascoltare, a momenti pirandelliana, si dipana e si sfila sul doppio binario del senso di colpa e della vergogna, tratti che accomunano sia Eugenia che Palmiro, che in qualche modo li avvicinano nel dramma, nel peso da portarsi addosso, la prima perché vittima indifesa, il secondo colui che l'ha spinta nelle braccia degli aguzzini famelici. In fondo sono tutti colpevoli, tutti complici, tutti vittime di un sistema ignorante, maschilista, sprezzante, senza rispetto per la vita, senza empatia per il dolore altrui. Nel mezzo secolo che separa lo stupro della ragazza dal suo suicidio i tre, Eugenia, Palmiro e Luigi, vivono sospesi in un limbo “non-vivendo”, in attesa che arrivi una forza esterna a proteggerli dal passato, che li ripari dall'irreparabile, li perdoni dall'imperdonabile, li salvi dall'irrimediabile. Ma i giorni passano, _DSC5874.jpgcosì come gli anni e il buco nero di paura monta dentro di loro costringendoli ad una non-esistenza fatta di tempo timoroso, un tarlo che li mangia dentro, un martello pneumatico che lentamente, come goccia cinese, ha scavato al loro interno gallerie di sofferenze e tormenti. Nessuno dei tre si è ripreso, per motivi diversi, dal trauma di quel giorno, da quel momento che ha cambiato, tranciato, trasformato per sempre i loro destini, che ha cancellato il prima e ha reso il dopo un fitto di nebbia e insoddisfazione.

Questo “Eugenia” (che andrebbe assolutamente fatto vedere alle scuole superiori) è la prima felice produzione del progetto “Teatro dell'Inclusione” di Massimo Verdastro al Teatro Luca Ronconi di Gubbio che consiste anche in una serie di incontri pedagogici sulle discipline della scena con grandi maestri del teatro.

Tommaso Chimenti 02/12/21

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