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"Estate in dicembre": "Tre sorelle" in un livoroso "Tutto su mia madre"

GENOVA – Cercare l'“Estate in dicembre” è come dire essere sempre fuori fase, fuori giri, in fuorigioco, perennemente fuori contesto, implacabilmente fuori fuoco. Essere sbilanciato, scoordinato, incoerente nel cercare quello che non c'è, ciò che non esiste, all'inseguimento di sogni e farfalle. Così come le cinque protagoniste di questo “Albero di Antonia” alla spagnola. Cinque i personaggi in scena ma molti di più quelli evocati, tirati in ballo, che fanno capolino come Godot inafferrabili per vivere nel ricordo, nella nostalgia, in quello che sarebbe potuto essere e purtroppo non è stato. In un'atmosfera di rammarico continuo, di frustrazioni esplicite come caterpillar e di lamentazioni a ciclo costante come schiacciasassi, le cinque donne, legate per sangue o affetto familiare, sembra che abbiano costruito e costituito una comune tutta rosa, e rancorosa, dove mancano proprio i maschi, gli uomini che fanno ombra con la loro assenza pesante.

Il testo è di Carolina Africa Martin Pajares, quarantenne drammaturga iberica di successo, che ha scritto anche il sequel “Autunno in aprile” che il Teatro Nazionale di Genova (che li produce entrambi e che ha ripreso alla grande in questa nuova stagione post Covid) metterà in scena a novembre. Sarebbe bello vederli nella stessa serata in una sorta di piccola maratona per non perdere il pathos, per non lasciare questi personaggi così teneri e burrascosi, per non staccarsi dalle loro dinamiche patologiche e delicate. La regia di Andrea Collavino ha tolto e pulitoEstate in Dicembre 2 ph Patrizia Lanna.jpg la scena e ogni oggetto è mimato, sublimato nella sua essenza scarnificata; gli unici oggetti presenti sono queste sedie, che diventano letto e poltrona e water e stanze, dove le nostre cinque antieroine stanno nell'affrontarsi, nel guerreggiarsi in faccia, in vis a vis cruenti e tete e tete crudeli, senza esclusioni di colpi, dove vince il senso di colpa su tutto, le recriminazioni, il rinfacciarsi aneddoti, e dove il presente è soltanto il frullato acido e amaro di un passato che si sarebbe voluto scordare. Il passato ritorna come una zuppa riscaldata rancida che ad ogni sorsata fa sempre più male, più schifo, indigesta, ormai indigeribile tra rapporti incancreniti e situazioni cronicizzate ormai di difficile, se non impossibile, districamento e scioglimento dei nodi che le tengono tutte bloccate, imprigionate, impiccate a ruoli predefiniti e stantii, soffocanti e vessatori.

Ognuna si autoalimenta dell'infelicità altrui e sembrano godere dell'insuccesso delle altre che così normalizza e abbassa il livello di questa famiglia distratta e disadattata, disgraziata e depressa: Alicia (Alice Giroldini, ruota tutto attorno al suo carisma) artista che si è volontariamente allontanata dalla casa-matrigna che la risucchiava nel buco nero - vortice senza fondo e senza allegria, Paloma (Elena Dragonetti, il suo sembra il personaggio anello debole della gang ma avrà il suo colpo di coda per redimersi), che significa colomba ma che ha paura, tra le tante, anche quella di volare, Carmen (Sara Cianfriglia, grande energia e solarità) la sorella spavalda e aggressiva che non porta mai la figlia Zoe (un'altra donna evocata ma che mai appare) a casa della nonna per non farla “influenzare” e contagiare dal vizio di famiglia della lotta nel fango, dell'offesa gratuita, dell'estorsione psicologica, del braccio di ferro per urlare all'altra chi è la più forte come iene nella savana, come avvoltoi sullo stesso cadavere carogna.

Tre sorelle in salsa spagnola. Tutte attorno alla madre Teresa (Fiammetta Bellone, si muove bene nei registri dell'animosità come della falsa vicinanza emotiva) capofila che le tira a sé come marionette, burattini che non riescono a liberarsi da quel legame così stringente, che le obbliga alla presenza e che le diffida dall'allontanarsene con biechi rimandi e il coltello sempre pronto a rivangare antiche ferite. Oltre a madre e figlie (con l'urna del padre e le sue ceneri che vaga), ecco la nonna (Elsa Bossi, stralunata e tenue) con alzheimer, madre del padre delle ragazze appena deceduto, che fa da parafulmine e che serve come triangolazione per nuove accuse, scudo dietro il quale proteggere e riaffermare la cattiveria matriarcale nei confronti delle figlie sottoposte. Manca l'amore, grande assente la felicità, rimangono i legami, corde buone per appendersi al soffitto.Estate in Dicembre 3 ph Patrizia Lanna.jpg

I personaggi enunciano, oltre alle loro battute, anche i loro pensieri, in uno sdoppiamento tra l'azione e il fumetto, tra quello che accade nella verità della scena e le note a margine di autore e regista in una sorta di parallelo tra la prima e la terza persona senza stacco, senza soluzione di continuità, dentro e fuori fluido accattivante. Dialoghi pungenti e un buon ritmo di stoccate e veleno tra vipere, colpi bassi e azzannamenti alla giugulare in questa casa lager, galera che non fa sconti né prigionieri, casa-recinto (dove tutti i cibi sono avariati o scaduti, marciti come le componenti in quella situazione di stallo) dalla quale sembra sia impossibile uscirne, inglobate, fagocitate, digerite dentro quelle quattro mura di gomma che le respinge al suo interno rendendo impraticabile qualsiasi tentativo di fuga, anche solo pensata o immaginata. Drammi subiti e abusi psicologici affermati, proteste avanzate e poi ritratte, minacce velate e invasioni invadenti, giudizi che feriscono, sono gli ingredienti sulla tavola di questa famiglia dove non esiste aiuto reciproco né solidarietà, e il cui sport preferito è la riesumazione degli scheletri nell'armadio che aleggiano e le fanno soccombere al cospetto di un ieri molto più pesante rispetto all'oggi incerto e traballante. Sono stressate, hanno lo stomaco a pezzi, bevono, si fanno del male, non vivono, non riescono a voltare pagina, incollate in una sostanza appiccicaticcia e purulenta che, come un elastico, ad ogni spinta per uscire le fa rimbalzare con una forza uguale e contraria impantanandole ancora maggiormente nelle sabbie mobili del cognome comune tra ansie vecchie e nuove, paure ancestrali e infantili, ipocrisie evergreen. Il futuro però può essere rosa, anzi, speriamo che sia femmina.

Tommaso Chimenti 21/10/2020

Ph: Patrizia Lanna

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