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L’Eracle donna di Emma Dante: un pianto mediterraneo per decostruire il potere

Mentre i sipari rimangono chiusi, anche la cavea del Teatro greco di Siracusa resta vuota per l’emergenza sanitaria in atto. In attesa del debutto della stagione 2020, è possibile recuperare su RaiPlay l’Eracle di Emma Dante (2018).

 

Al ritmo di tamburi e tra grida scomposte, giungono sulla scena i personaggi dell’Eracle allestito da Emma Dante. Scuotendo i capelli che come un elmo coprono il viso, uno ad uno ci rivelano il nome, svelando la morbidezza di tratti femminili. 

Assegnare tutti i ruoli della tragedia a giovani attrici è certamente un atto sovversivo nei confronti della regola antica per la quale soltanto gli uomini potevano calcare le scene, ma serba in sé anche la possibilità di una più radicale lettura politica: quella di una decostruzione dei codici maschili legati alla forza e al potere. 

Fedele alla sensibilità euripidea, l’Eracle che ci viene presentato è un uomo che si abbandona al pianto, la cui corazza semidivina viene a disgregarsi per lasciare fluire un’umanissima fragilità. Nonostante la possente armatura, l’eroe (Maria Giulia Colace) ha movenze scattanti e dinoccolate, come quelle di una marionetta, o di un pupo siciliano, le cui fila vengono rette dagli dei, e il cui braccio viene guidato da Lyssa (Arianna Pozzoli), l’implacabile furia, verso «un baccanale senza gioia» che darà la morte alla moglie e ai figli.
In un densissimo stratificarsi e riverberare di significati, la regista palermitana intreccia in ogni elemento della scena immaginari che sieracle megara rincorrono da una sponda all’altra del Mediterraneo.
Le fotografie in bianco e nero appese sulle pareti di marmo sembrano evocare la memoria degli avi, custodita tra le mura del palazzo di Tebe, ma nella geometria dei lavacri e nel lento andamento delle pale di legno si annida già il presagio che condurrà gli ultimi momenti di ritualità familiare e comunitaria a tradursi nella rigidità cimiteriale di croci e cenotafi.
Il coro composto da vecchi tebani - unica presenza maschile nell’adattamento siracusano - mantiene il suo tradizionale carattere popolare, rinvigorito da una pregnante religiosità barocca, fatta di pesanti gonne nere, veli di pizzo, santini e macabri teschi.
eracle teseoTra le braccia imploranti dei fanciulli, l’immagine statuaria di Megara (Naike Anna Silipo) si sovrappone a quella di una mater dolorosa circondata da corone di fiori: nella sequenza struggente del bagno lustrale che dovrebbe preparare i figli alla morte, Emma Dante sembra tornare con un altro registro, ma con rinnovata commozione all’intimissima vicenda di Vita mia. All’eterno dolore della madre che «contro natura» deve seppellire i figli, si unisce lo strazio e l’urlo del vecchio Anfitrione (Serena Barone), sopravvissuto persino ai nipoti, al quale spetterà il compito di «ricomporre nella morte quella triste comunità».
Al calare del sole, nel tormento tragico dell’arti manzano, Eracle «si comporta come una donna» – afferma l’amico Teseo (Carlotta Viscovo) con brillante ironia meta-teatrale - ma con volto e voce di donna raccoglie anche il coraggio per affrontare la più ardua delle fatiche: quella di continuare a vivere.

Chiara Molinari 27/04/2020