Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Epic Festival: in Aspromonte si fa teatro tra le "Spine"

BOVA - “La dignità è al sommo di tutti i pensieri ed è il lato positivo dei calabresi” (Corrado Alvaro). La Calabria è una madre arcaica e scontrosa e rugosa e curva che fa allontanare i propri figli per mancanza di domani e da lontano li ama ancora più forte ed è ricambiata ancora più visceralmente. Piange il cuore vedere la ferrovia che deturpa la costa, che taglia le spiagge. La terra è bruciata, la terra continua a bruciare. In alto volteggiano i Canadair che viaggiano a coppia facendo la spola tra il mare e queste montagne di stradine che si arricciolano, si inerpicano, si aggrovigliano simili alle salsicce che girano su se stesse come liquirizie, con il finocchietto selvatico e il piccante (che qui è una religione, una morale e un way of life). Questi aerei gialli e rossi vorticano nel loro brulicare tra le nuvole superando gli spuntoni di roccia che affiorano nello skyline che sembrano dover bucare e sgonfiare il cielo. Bova (da non confondere con Bova marina, qui gli abitanti ci tengono alla separazione netta) è a 900 metri sopra il livello del mare e, arrivandoci, la sensazione è quella del presepe 

236439950_10215627041667488_5028595219927995748_n.jpgda cartolina. Gli arbusti secchi ai lati della strada, l'erba ingiallita, i campanacci di pecore e capre che rincorrono l'ultima ombra nella vallata. Il silenzio è secolare, ti viene spontaneo di acquietare i pensieri banali di cittadino e stare in ascolto, di un fruscio, di un gemito, di un verso portato qui da chissà quale parte dell'orizzonte. La foschia opacizza il mare là in fondo. Quello che vedono le retine è metafora di quello che esprime l'intorno: rovi, sassi smangiucchiati, ferri arrugginiti che spuntano, abitazioni abbandonate alle sterpaglie, il ronzio costante di insetti alla ricerca di qualcosa. E' Aspro questo Monte. Ma nel selvaggio incolto ecco anche i fichi dolcissimi come le more che tingono di macchie malate e chiazze viola il cammino.
All'entrata del paese non può non colpire la gigantesca locomotiva, comprensiva di un vagone, che intasa la piccola piazzetta e relega gli anziani a giocare in tavolini minuscoli ed emargina i bambini a giocare attaccati a questa ferraglia lucente nera bordata di rosso. A Bova non c'è neanche la stazione, non ci può essere. Istituzione di Bova è il “Lestopitta”, il ristorante dei gemelli Mimmo e Nino con le loro pizze fritte farcite con melanzane e peperoni e capocollo e formaggio e il vino nero che qui tengono in fresco mentre altrove sarebbe una bestemmia. Un paese di salite e discese, da polpacci buoni, un borgo dove le case sono costruite proprio sulle rocce e il muschio le adorna, le colora di giallo, le pitta granuloso e ruvido. Salendo si arriva, passando per la Grotta degli Innamorati, fin su al Castello Normanno del quale rimangono alcune rovine e dal quale si vede un teatro all'aperto purtroppo inutilizzabile (chissà da quanti anni) perché in alcuni punti hanno ceduto le assi del palcoscenico; fare e vedere teatro quassù sarebbe una meraviglia per lo spirito, esperienza unica per attori e pubblico. A Bova tutto è slow e anche il telefono non prende e la parola “wifi” viene percepita con sospetto se non proprio come una vera minaccia all'integrità e all'identità del luogo. E' proprio un valore aggiunto quello di non poter essere connessi a null'altro che non sia quel luogo e quel tempo nel presente. Per le stradine sotto i piedi scrocchiano croccanti gli aghi di pino che sembra di calpestare un pane appena sfornato, tra i muretti a secco e le ringhiere di tronco. 

Salvatore-Arena-e-Massimo-Barilla-Mana-Chuma-Teatro-1024x711.jpg

Da venti anni vengono qui in inverno a provare i loro spettacoli la compagnia Mana Chuma Teatro (il drammaturgo e regista Massimo Barilla, l'attore e regista Salvatore Arena, il musicista Luigi Polimeni) gruppo metà siciliano e metà calabrese, e qui hanno deciso di portare la prima edizione del loro “Epic Festival” (16-24 agosto; per il futuro bisogna lavorare meglio sul pubblico) dislocato tra piccoli cortili, aie, piazzette, parchi. Siamo nella Calabria Grecanica ed anche i cartelli sono in doppia lingua: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”, sosteneva Cesare Pavese. Nelle parole di Barilla contenute nel suo volume di poesie “Ossa di crita” (creta, argilla ma per assonanza anche grida, suggestione del tutto personale) stanno i termini e le atmosfere che identificano questa terra appuntita e solidale, che ferisce e abbraccia, zolle che producono cicoria e cardi così come la dolcezza amara del bergamotto dal profumo intenso. Ci sono le mani, i sapori, i saperi, i graffi, i chiodi e il vento, il padre, i denti, il vino, il sangue, le orme, il dolore, la carne, la pietra, la polvere, il fango, le ombre, la madre. Un libro, che qui è diventato performance, in doppia lingua, calabrese (o meglio reggino) e italiano a fronte. A strizzarle ne esce l'odore secco del sole che ferisce come arpioni. Ad accompagnare Barilla il musicista e compositore Luigi Polimeni che maneggia il Thremin, strumento che emana frequenze, carezzandolo, lisciandolo, massaggiandolo come se toccasse una pelle nuda cercando l'armonia migliore, l'onda che fa rima, l'aria che si sfarina, muove i palmi nell'aria trovando l'invisibile, sposta consonanze di materia volatile che noi scettici non possiamo decodificare sfiorando quell'asta di barca a vela al tramonto, bianca come pinna di squalo in controluce. E' una magia quella che provoca, surfando sul niente, donando senso, tagliando il silenzio. Quella di Barilla è una poesia tattile e naturale, di smozzicamenti e morsi, parole artigiane, di brace, di occhi stretti, di amore e morte.

Di spine è pieno lo sguardo, tra i fossi, tra i campi. E “Spine” (testo e regia delle due anime dei Mana Chuma, e nuova produzione), drammaturgia onirica e trasognante che, in loop, lascia i toni Gli-attori-Mariano-Nieddu-Stefania-De-Cola-e-Lorenzo-Pratico-foto-di-Felice-DAgostino-15.jpgrealistici per affondare e approdare in una dimensione impalpabile dove tre personaggi, anche scambiandosi i ruoli, se ne stanno reclusi, senza via d'uscita che non sia quella di ripercorrere gli accadimenti, di perpetrare quel dolore subito per giungere ad una nuova consapevolezza. In una sorta di taverna senza tempo l'ostessa Maddalena, il Capitano Lucio e il Becchino danzano e avanzano senza posa tra queste quattro mura che asfissiano il pensiero, si arrovellano sugli stessi argomenti in un ripetersi che torna e ritorna senza lasciar loro nessuna possibilità di movimento che non sia quella di rivivere gli eventi, nuovamente raccontarseli, riassorbire quel tragico dolore addosso, come veleno, senza riuscire a digerirlo ma solamente a ripercorrerlo, senza perdono, senza salvezza, senza assoluzione. E non si sa se siano le spine della vita che li hanno colpiti a fondo, in profondità, oppure se siano proprio loro delle spine che ormai, soltanto muovendosi nel mondo, feriscano chi gli sta accanto ferendosi a loro volta. Ogni giorno che cala gli stessi gesti sincopati, le stesse battute in questo angolo di Purgatorio che non purifica, in questa parentesi che li punisce ad una sofferenza eterna senza redenzione né possibilità di liberarsi del peso. Stonano leggermente le parti parodistiche, che sfociano nel ridicolo, troppo prolungate e forzate. Maddalena (come l'amante di Cristo; Stefania De Cola puntella le scene con eleganza e forza, tempra salda) e Lucio (Lucifero, portatore di luce; Lorenzo Praticò ha cambi di registro importanti) sono/erano una coppia, che adesso vive soltanto di recriminazioni e accuse, mentre il Becchino/Caronte (Mariano Nieddu sempre una garanzia) seppellisce i morti in questa bolla spazio-temporale, ed ha dato l'estremo saluto anche al loro figlio piccolo. E' questo il nodo e il moto verso cui tende tutta la forza e la violenza del testo, tutta la tensione di parole rimaste imbrigliate, zeppe di non-detto che ciclicamente tornano in questo pericoloso gioco a tre (assimilabile più al “Woyzeck” di Buchner che al molto citato “Otello” shakespeariano) che rivivono all'infinito la sequenza ultima, questa processione faticosa e snervante che li taglia, li spezza, li sfinisce, li prosciuga, li annichilisce, li svuota in questa condanna perpetua, immateriale e permanente: la peggiore di tutte le pene, avere la possibilità di riviverla senza poter cambiare il corso delle cose nella loro condizione di clausura.

“I calabresi sono gente dal carattere temprato come l’acciaio” (Antonio Gramsci).

Tommaso Chimenti 22/08/2021

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM