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La purezza di “Elvira” di Toni Servillo nell’insegnamento di Louis Jouvet

Il teatro rimane sempre un mistero. Come un riverbero, si ripresenta ogni volta qualcuno rifletta su questo particolare modo di stare insieme, di quella situazione di comunicazione alla cui base c’è la necessità di parlare a un pubblico, che si manifesta nei gesti come un abbraccio, una mano che sfiora, uno sguardo – soprattutto interiore – che raggiunge l’anima. O almeno così dovrebbe essere. Un mistero che si tinge dei colori del dubbio, di quegli interrogativi che Louis Jouvet conosceva bene. Il maestro del teatro del Novecento – legato indissolubilmente a un altro grande nome della pedagogia e della regia, Jacques Copeau, fondatore del Théâtre du Vieux-Colombier – non ha mai smesso di guardare alla rappresentazione, al mestiere dell’attore, di soffermarsi sull’impossibilità del non chiedersi cosa effettivamente sia il teatro e perché lo si fa. Tanto da fargli tenere delle lezioni al Conservatoire National d’Art Dramatique di Parigi che lui stesso – forse guidato da un impeto profetico – decise di far stenografare da Charlotte Delbo. In particolare, saranno sette le lezioni – tenute dal febbraio al settembre 1940 – diventate un vero e proprio “cahier du théâtre”, una densissima apologia critica a forma di testo teatrale, e quindi spettacolo per la prima volta andato in scena nel 1986 – “Elvire Jouvet 40” – trascritto dalla regista Brigitte Jacques. E forse non è nemmeno un caso se, come un filo diretto, in quello stesso anno – nella stagione 1986-87 del Piccolo Teatro di Milano – Giorgio Strehler confezionò uno dei suoi spettacoli più importanti e dichiaratori di tutta la carriera, “Elvira o la passione teatrale” – con Giulia Lazzarini come interprete femminile. Oggi, da quei trent’anni di distanza che ha visto il teatro testimone e mezzo di cambiamenti, Toni Servillo riprende in mano queste lezioni – nella nuova traduzione di Giuseppe Montesano – proiettandole nella contemporaneità e proponendo al pubblico del Teatro Niccolini di Firenze – come ultima tappa di una tournée iniziata a Milano e proseguita a Parigi e a Napoli – la sua “Elvira”.Elvira2
Tutto il “dramma” ruota attorno all’ultima apparizione di donna Elvira nel “Don Giovanni” di Molière (atto IV scena 6), di come ella, ormai in pace con tutti i torti emotivi subiti, si presenti davanti al vecchio amante non per muovergli delle accuse per tutto il dolore, bensì per avvertirlo dell’orribile fine che lo attende se perseguirà nel suo comportamento non curante ed egoista. Così assistiamo alle prove prima del risultato finale in cui, all’interno di una scena pressoché vuota – solo un tavolo da regia, delle sedie e una pedana rialzata, ipotetico palcoscenico nel palcoscenico –, dove il regista Jouvet/Servillo guida la sua attrice Claudia/Elvira – una “vera” Petra Valentini – alla ricerca della giusta sensazione, del giusto sentimento, della giusta commozione che pervade, tutta, la figura della donna ingannata. Le parole di Jouvet si mescolano a quelle di Elvira, nell’urgenza di questa visita. Anche noi, spettatori, sentiamo un’urgenza, quella di sapere, di partecipare della pietà della donna, divisi tra la compassione di Sganarello (Davide Cirri) e l’imperturbabilità di Don Giovanni (Francesco Marino). Ma loro sono anche gli attori (Octave e Léon) che, insieme a Claudia, cercano la Verità dell’interpretazione, del sentimento contro un’arte dell’attore degradata, oggi come allora. Mai essere troppo sicuri e a proprio agio; si deve abbandonare la mera tecnica che svilisce e abbassa la portata del sentimento. Mai affrontare con sufficienza il testo, unica legge in grado di smuovere dal di dentro l’uomo. Per arrivare al punto bisogna sforzarsi, sentire quella profonda lacerazione interiore che può avvicinare al mondo del personaggio – questo sconosciuto sempre rincorso, a volte acciuffato, molto spesso non visto.
Jouvet e Claudia si confrontano, s’interrompono, riflettono, si abbattono, non perdono la speranza nel doppio gioco d’insegnante-allieva sempre biunivoco e nel movimento precario del corpo tra palcoscenico e le prime file di una platea piena di energia non semplicemente voyeuristica.
Elvira3Servillo tesse uno spettacolo rigoroso, organico, di una semplice complessità che non scopre il fianco a momenti di rallentamento o noia, utilizzando il buio come lieve segno d’interpunzione tra una lezione e l’altra, quel tanto che basta per renderci conto di cosa è accaduto e si è detto e subito proiettarci nella curiosità del dopo, di quale passo sarà compiuto da Claudia nel suo cammino verso il personaggio, verso quelle parole intese come cristalli infrangibili – a volte opachi a volte sfolgoranti – che si stagliano lì, nella volta celeste del Teatro, ultima e perfetta meta di una via crucis straziante, spirituale e pura tutta da scoprire.
Sia Copeau sia Strehler pensavano a un Teatro d’Arte per tutti, in quella possibile e necessaria portata sociale, di un’utilità concreta per l’uomo, di una spiritualità che ben si percepisce assistendo a questa “Elvira”. E anche in quella concretezza del teatro là dove esiste una mancanza, una ferita, la guerra che ha determinato l’esilio di Jouvet e l’interdizione di Claudia alle scene. Una Parigi sotto scacco; una città del teatro umanamente distrutta dall’occupazione nazista di quegli anni. Proprio da questo però scaturisce e si rinnova il desiderio di riunirsi, ancora una volta, per muoversi tra le spire dell’«incandescenza emotiva» - come sottolinea lo stesso Servillo – per arrivare oltre la ribalta. Così assistiamo alla risoluzione del mistero nell’unico modo possibile di fare teatro, quello che Jouvet chiama «in profondità, o meglio in altezza»: porsi nella «verticale dell’infinito» per raggiungere quelle alte vette del sentimento. Allora, in questo tributo al maestro Jouvet che scandaglia la dedizione e l’amore verso il mestiere dell’attore, Servillo permette questo avvicinamento, tirando fuori l’irrefrenabile tensione verso l’emozione, il lavoro, il tormento della passione donandosi – insieme ai suoi attori, a Elvira e a Jouvet stesso – a noi. Senza chiedere nulla in cambio se non lo sforzo di guardare in alto.

Marco La Placa 16/03/2017

Foto: Fabio Esposito

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