SPOLETO – Gli esperti ci dicono che Don Giovanni e Casanova hanno tratti dissimili, lontani, divergenti. Eppure hanno in comune, a nostro avviso, da una parte la cupezza della disperazione esistenziale che li porta a cercare la carne non come soddisfazione ma come dissoluzione e disfacimento e distruzione, dall'altra la morte che aleggia, quasi la ricerca furiosa e forsennata della stessa, quasi fosse una punizione autoinflitta, una discesa agli inferi attraverso i piaceri smodati, attraverso l'abuso, l'eccesso, la caduta. “Don Giovanni” (3h 30' con intervallo) può essere rappresentato in forma leggera o in una versione più introspettiva, questa del Teatro Lirico Sperimentale spoletino, diretto da Salvatore Percacciolo e per la regia di Henning Brockhaus, tira molto sul lato comico, la prima parte, e pesantemente drammatica la seconda, pur sembrando ridondante, troppo sottolineata. Rimane lievemente nel guado, nella non scelta, in un equilibrio equidistante che non soddisfa né l'una né l'altra parte restando imbrigliato in un gioco di colori sgargianti e soprattutto in una scenografia esondante, piena di riferimenti, anche non coerenti, colma di segni e oggetti che hanno spostato l'attenzione sui significati, sulla forma più che sull'analisi profonda di un testo multisfaccettato e composito come appunto il Don Giovanni. Se lo rappresenti soltanto come un donnaiolo irriducibile, un guitto, un bravo, un guappo (forse dovrebbe anche farci simpatia?) che ottiene le virtù delle fanciulle con stratagemmi, furbizie, inganni e violenze, fai un torto alla sua figura e, in maniera maggiore, a tutto il marcio, il sommovimento interiore emotivo psicologico di un personaggio che incontra la Morte, uccidendo caravaggescamente il Commendatore, e portandosi addosso come stigma, il simbolo dell'inferno. Un Don Giovanni che all'inizio entra dentro una tela da pittore, come un Dorian Grey, sfondando la parete ed entrando in un disegno più grande di lui.
Qui, nel primo atto in maniera evidente ma anche nel finale, si cerca più uno sfogo burlesco, burlone e gioviale, si fa leva sul battutistico (ad esempio un Leporello, disegnato con giacca di cuoio alla Fonzie, è raffigurato soltanto come un ruffiano bieco quando in realtà è l'altra faccia della medaglia di Don Giovanni). Si punta molto sul sesso, sugli incontri, sugli amplessi patologici, sul gioco d'accumulazione, anche se sembra che il nostro Cavaliere, rocker irrispettoso, impetuoso, libertino e arrogante, ami più la conquista seriale e sincopata e bulimica che la carnalità vera e propria: come se avendo perso la propria anima volesse cibarsi vampiristicamente di altre aure per riempire questa sua mancanza profonda e vuoto siderale succhiando la vita di vergini per ritrovare la purezza e il candore dissipati e smarriti per sempre. E ci ha lasciato stupiti la decisione di vietare la visione dell'opera mozartiana ai minori di diciotto anni: la parte più scabrosa, ad essere fiscali e ortodossi, era la locandina (scena non presente sul palco perché è un dipinto di Jack Vetriano) con Don Giovanni in piedi e una fanciulla seduta su una sedia di spalle in una posa da possibile, ma non esplicita, eventuale fellatio. In scena invece nessun momento di nudo, nessun quadro discinto o smaccatamente violento, con i costumi delle ragazze che ricordavano il Moulin Rouge con qualche fondoschiena al vento ma niente che non si trovi in ogni sito internet pubblicizzando lingerie e pizzi vari.
La cosa però più ingombrante e imponente che ha destato in noi più perplessità è stata la scenografia monstre, curata più per colpire nella sua abbondanza e voracità che per l'efficacia e la funzionalità: tra i fondali che si susseguono forse soltanto il primo, con sette donne di schiena (una sorta di ballerine di Degas con in mostra in prima vista i sederi rotondi) e l'ultimo con uno sbaffo di vino (sangue e sesso) possono in qualche modo essere in linea con il titolo, gli altri che si susseguono, astratti, riescono a complicare maggiormente la visione di ulteriori colorazioni e cromatismi. In alto restano sospese decine di sedie (Ionesco?) alle quali non siamo riusciti a trovare un significato soddisfacente. Cadono dall'alto infinite paia di scarpe femminili con tacchi vertiginosi per feticisti, mentre ai lati della scena, un po' nascosti e nel buio, stanno banchetti con tavole imbandite, quasi brechtiane, e candelabri con uomini e manichini nudi di donna come se la scena che stiamo-stanno guardando sia teatro nel teatro all'interno di un locale da spettacoli hot, come le odalische nei palchetti con le bolle di sapone. Addirittura, ad un certo punto, spunta anche un orso polare bianco (sembra quello di uno spot anni '90 della Coca Cola) che, con tutta la buona volontà, non siamo riusciti a collocare né filologicamente né come scelta azzardata e contemporanea. Insomma tanto, molto, troppo, un frullato dai tanti gusti aggiunti per somma e forse non per esigenza narrativa o drammaturgica.
Le donne in bianco virgineo, mentre Don Giovanni inguaribile uomo senza onore, mentitore e traditore e bugiardo è in un giubbotto nero da motociclista demoniaco, non hanno libero arbitrio ma si lasciano prendere come burattini senza scelta né consapevolezza per poi, alla fine, cercare di fargli la pelle per punirlo moralisticamente: “Questo è il fin di chi fa mal”. Anche il Commendatore, che torna dal mondo dei defunti per colpirlo con le fiamme degli Inferi, si presenta dalla Platea (tecnica qui spesso usata per non dire abusata) con i led che lo illuminano da sotto la giacca. Più che l'opera incede e più zoppica. Infine sottolineiamo i costumi di Giancarlo Colis e tra il cast spicca Alessia Merepeza nei panni di Donna Elvira.
Tommaso Chimenti 20/09/2022
Foto: Ludovica Gelpi