“Gli disse amor se mi vuoi bene, tagliati dei polsi le quattro vene. Le vene ai polsi lui si tagliò, e come il sangue ne sgorgò correndo come un pazzo da lei tornò. Fuori soffiava dolce il vento ma lei fu presa da sgomento quando lo vide morir contento. Morir contento e innamorato quando a lei niente era restato non il suo amore non il suo bene ma solo il sangue secco delle sue vene”. (Fabrizio De Andrè, “Ballata dell'amore cieco”)
Cominciamo con il dire che Alessandro Riccio è iperproduttivo, prolifico. Se questo da una parte è un bene, soprattutto per lo zoccolo duro del suo pubblico di affezionati che da quindici anni si è coltivato tra “Mese Mediceo” e ville sparse per le colline fiorentine, dall'altra risulta dannoso per la quantità inflazionante del proprio lavoro. Non tutte le ciambelle possono, gioco forza, riuscire con il buco. A strappi positivi, come possono essere stati i felici “La meccanica dell'amore” o la sostanziosa “Bruna è la notte”, ma andando ancora più indietro nel recente passato anche l'apprezzabile “Le Grand Cabaret Deluxe”, ci sono stati, inevitabilmente, dei passaggi più stanchi o più deboli, meno esplosivi, meno accesi del solito. Una macchina produttiva la Tedavi 98 che anche in questa occasione ha fatto sold out nelle dieci repliche nella villa che fu del tenore Enrico Caruso che, si dice, si affacciava sulla sua terrazza e gorgheggiando appena sveglio scaldava la voce arrivando fino all'Arno e facendo sentire ai fiorentini la potenza delle sue corde vocali.
Le idee non fanno paura a chi le ha. E Riccio ne ha da vendere. Cerca sempre l'angolatura meno battuta, la strada meno semplice, il ribaltamento delle argomentazioni, la curiosità dell'intelletto, il pungolo della messa in discussione di temi che si pensa abbiano già dato tutto, siano già stati spremuti a sufficienza. Ecco che, nella sua ultima ricerca nell'universo femminile, la trasposizione di un “mito” maschile e maschilista come il Don Giovanni, da Mozart fino a Filippo Timi, si abbiglia di vestigia femminili con un doppio passaggio, prima a Donna Giovanna fino all'estremo “Don Giovanna”, donna che si fa uomo non nelle sembianze ma quanto nel titolo, nell'alone, nella predisposizione e attitudine alla caccia, alla corsa, alla conquista.
Riccio, che si lancia in arditi trasformismi da caratterista consumato (imperiale il suo “cocchiere” stralunato), è sempre più conoscitore dell'animo delle donne, sempre più dentro la sensibilità, le pieghe nascoste, i segreti, i paraventi dei sogni e delle paure femminili. In questo ribaltamento dei ruoli classici, la donna qui è un moderno prodotto del machismo che la voleva schiacciata e sottomessa, da pecora indifesa si fa lupo sbranatore, vendicatrice dell'aggressività presupponente, presuntuosa e saccente degli uomini che giocano con il cuore (il più delle volte con il corpo) delle fanciulle. Dieci ragazze per me posson bastare.
Ma se l'intuizione di base ha in sé uno sguardo originale e una visione dell'insieme interessante, se il plot ha i suoi fondamenti certi e stabili, l'andamento però risulta traballante, soprattutto il carattere della protagonista è un'altalena costante e incerta, come soggiogata alle montagne russe che non riescono a definire e a delineare con precisione il ruolo dell'eroina. A tratti è docile come agnello, adesso guerriera fiera, ora giura vendette, adesso china il capo, adesso fa sputare sangue, ora si ravvede e chiede perdono, ora svilisce, adesso recrimina, poi redarguisce e punisce, ora modula la vocina come gatta, infine umilia, come sua profonda vocazione, preferito passatempo e sadico divertimento.
Giovanna l'anaffettiva (Giannina Raspini ancora troppo acerba, e atteggiata, per reggere un fiume di parole imbizzarrite e un personaggio con questa interiorità così deturpata) sfida gli uomini sul loro stesso terreno, la conquista sessuale e sessista, assaggiando senza gustare a pieno, mordi e fuggi, disseminando di torsoli-vittime il suo cammino di amanti distrutti, annichiliti, vinti. E se l'indagine iniziale esautora ed espropria il maschio dal ruolo di maestro e pigmalione, attivando Giovanna un'autoformazione che la immerge nello studio per essere sempre meno in balia dei pensieri altrui e la porta ad avere consapevolezza ed essere autonoma nelle sue scelte per non essere trattata come carne da macello, per non essere usata o abusata (“Leggo per legittima difesa”, diceva Woody Allen), questo processo velocemente si sfalda in una superficiale, vagamente libertina, rappresaglia contro qualsiasi maschio le capiti a tiro. In questo il maschio (il Don Giovanni in questione) mette sul piatto sia la disperazione che la gioia, mentre in Giovanna la bilancia è inclinata verso la frustrazione che nemmeno mille uomini possono colmare, delle carezze negate che l'annotazione e l'archiviazione dei falli non possono riempire.
Un Narciso al femminile che si arrovella sui monologhi della vagina, una latin lover in gonna votata più all'inganno e alla falsità che alla goduria del momento, al ludibrio giocoso dell'infantilità del maschio. Più Mata Hari che ninfomane, più manipolatrice e calcolatrice che gigolò. I ruoli comprimari non aiutano né supportano la buona riuscita del lavoro teatrale. “L'utero è mio e lo gestisco io” non ha mai risolto i rapporti tra i due sessi. Piccolo donne crescono. Avvelenate.
La frase: “Perché il lutto non vale per i vedovi?”
Visto a Villa Bellosguardo, Lastra a Signa, Firenze.
Tommaso Chimenti 20/11/2015