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“Do animals go to Heaven?”: purezza, inquietudine e coscienza. Al Mecenate di Arezzo, il lavoro di Olimpia Fortuni

Con la regia coreografia di Olimpia Fortuni, al Teatro Mecenate di Arezzo, va in scena “Do animals go to Heaven?” nell’ambito della XI edizione della rassegna di danza contemporanea d’autore INVITO DI SOSTA organizzato dall’associazione Sosta Palmizi.
L’intero spettacolo ruota intorno alla relazione tra uomo e animale: come viene vissuto questo rapporto? E quali sono gli effetti sulla natura? Il progetto, presentato in prima regionale, è come un invito ad osservare lo stato delle cose, lasciando allo spettatore la libertà di giudicare fino a che punto l’essere umano può spingersi senza comprendere il danno che reca a se stesso e all’altro da sé.
Lo spettacolo infatti, tra le tante particolarità, ha anche e soprattutto quella di mostrare al pubblico l’evoluzione di questo quadro, partendo dall’habitat incontaminato in cui gli animali possono vivere liberamente per arrivare al funereo ambiente di sangue e fragori che è il mattatoio. maxresdefaultCon Pieradolfo Ciulli, Masako Matsushita, Gabriele Montaruli e Raffaele Tori, la Fortuni ha lavorato sull’analisi e l’esplorazione del mondo, quello esterno in cui tutto si genera, cresce e poi muore, ma anche quello interiore dove possono insediarsi le radici di un male al quale crediamo di essere immuni ma che in realtà è in grado di penetrare, silenziosamente, la pelle. Si parte da un contesto “libero”, un ambiente puro, incorrotto, dove anche il minimo e impercettibile rumore, cattura l’attenzione di quei due unici animali presenti in scena. Un palco sgombro di qualsiasi artificio, proprio come la natura quando è inviolata, illesa, vergine tanta è la sua interezza.
L’iniziale azione coreografica delle due danzatrici, (non a caso sono due donne che danno origine allo spettacolo), è costruita proprio sul senso di indagine e approfondimento del movimento, del corpo come luogo da esplorare e della relazione di questo in un determinato spazio. La superficie in cui si muovono, infatti, rappresenta il luogo in cui è possibile trovare il risposo e la fatica, il pericolo e il riparo, l’isolamento e la vicinanza dell’altra figura. Il corpo, in questo territorio, può muoversi liberamente ma soprattutto, sollecitando ogni singolo muscolo, è in grado rilevare e sentire tutta la materia di cui è fatto. “Do animals go to Heaven?” procede come un climax di tensioni, inquietudini e turbamenti. Dalla natura incontaminata si arriva a veri e proprio lager, luoghi di distruzione fisica ma anche morale, autentiche prigioni in cui gli animali si avviano alla macellazione. Un luogo, il mattatoio, che è come un moderno Acheronte, quel limbo destinato a separare il mondo dei vivi da quello degli inferi, la vita dalla morte nel viaggio senza più ritorno. Ad aumentare il senso di turbamento in questo momento è, ancora, lo spazio nel quale i danzatori compiono la performance: ci sono ovunque pezze colorate, corde, catene, ma non solo. La stessa azione coreografica è diventata più turbinosa, violenta e agitata, in netto contrasto con l’inizio. Tutto questo, poi, si correla dai rumori, di sottofondo, di un vero mattatoio: paesaggio sonoro o semplice esecuzione? I silenzi si mescolano a violenti rumori delle macchine industriali, suoni di corsie e di resistenze. Questa scena, caratterizzata da un’esplosione di colori, si ispira ai quadri di Jonas Burgert; il pittore tedesco, infatti, esaltando colori fluorescenti, dipinge un’umanità che ha bisogno di essere guardata e riguardata per comprendere davvero le parti di cui è composta. Le sue tele, molto attraenti proprio grazie a questo sapiente utilizzo delle tinte cromatiche che stimolano l’attenzione della vista, sono in realtà popolate da elementi animati e inanimati, corpi o brandelli di essi. Una sapienza compositiva che sprona l’occhio a guardare le cose in maniera più attenta, al fine di trovare tutti i pezzi di cui si compone un’apparente –e falsa - bellezza.
Dall’ inquietudine, di nuovo alla calma per una perfetta chiusura del cerchio. Alla fine, infatti, si libera ancora quel senso di sacralità iniziale anche se “carica” di tutte le esperienze. La sacralità collettiva e ritrovata non è più distinta da un senso di purezza e innocenza, è quasi più una dimensione sospesa in cui si è maturata una certa consapevolezza delle cose e del mondo. L' habitat incontaminato non esiste più ormai, ma resta l’immagine di un paradiso perduto e poi ritrovato, un luogo di calma e, semplicemente, meno oppressivo.

Laura Sciortino 20/2/2019