«Questa non è mica una tragedia, ma una barzelletta!» sentenzia Cesare, personaggio di Fragole e Panna, opera sceneggiata da Natalia Ginzburg, riferendosi alle vicende personali della sua vita borghese e non mi sento di dissentire. Si è conclusa domenica 16 giugno, a Parigi, la lunga tournée, iniziata il 9 ottobre al Teatro Carignano di Torino, di Diari d’amore, prima regia teatrale di Nanni Moretti di un dittico della Ginzburg, che comprende l’appena citato Fragole e Panna (1966) e Dialogo (1970).
Data la coppia di nomi autorevoli, le aspettative generali erano molto alte, tanto che i biglietti per le date di Roma (dal 23 maggio al 2 giugno era in scena al Teatro Argentina) sono andati sold out in pochissimo tempo. Il poeta inglese Alexander Pope diceva «beato chi non si aspetta nulla, perché non resterà mai deluso» e forse questo è uno dei casi in cui sarebbe stato indicato. Nonostante nomi affermati anche tra gli interpreti, quali Valerio Binasco e Daria Deflorian, qualcosa nell’insieme del meccanismo è risultato stridente, qualche ingranaggio era fuori posto e il bilancio finale è stato uno spettacolo certamente godibile ma non esaltante.
Entrambe le pièce riguardano relazioni familiari borghesi e la loro fatuità. Si tratta di racconti d’interiorità spezzate, mai compiute, sempre alla ricerca di un elemento esterno che le sensifichi. Il mondo fuori allo stesso tempo è continuamente temuto, snobbato, giudicato, e non a caso entrambe sono scene d’interni, pensate da Sergio Tramonti, e magnificamente valorizzate dai giochi di luce di Pasquale Mari: Dialogo, che contrariamente alla tradizione editoriale viene rappresentato per primo, ha luogo tra le mura di una buia camera da letto; mentre Fragole e Panna, in un luminoso salotto di una villa di campagna.
La Ginzburg racconta quel che conosce, così come ha fatto in Lessico Famigliare (Premio Strega 1963), in Famiglia Manzoni, in La città e la casa e altri romanzi, ma sono proprio i suoi scritti teatrali a incarnare tutta la frustrazione, principalmente ma non esclusivamente femminile, dell’esistenza nelle asfissianti strutture sociali borghesi degli anni Sessanta. Nel 1965, un anno prima dell’uscita di Fragole e Panna, la rivista Sipario apre un’inchiesta su Perché gli scrittori non scrivono per il teatro, a cui partecipa anche Natalia affermando che «è una questione di stile, manca un linguaggio italiano medio: i letterati guardano a un italiano aulico e antico, non in linea con i tempi; le scelte dialettali non vanno bene; ma se il teatro è conversazione, i personaggi devono adottare un linguaggio adatto, che però non c’è». Quello che seguirà sarà il suo periodo più fervido di scrittura drammaturgica, sempre rigorosamente caratterizzata dalla commedia. Nonostante i temi familiari fossero verosimili, rotti, sporchi, decadenti, deprimenti e tutto è descritto con critica e cinismo, lei le definirà sempre commedie - un po’ alla Goldoni - e questo perché la sua attenzione sarà sempre rivolta alla struttura più che al contenuto.
Dialogo, per dirne uno, è esempio di virtuosismo strutturale: comincia in media res, non esiste né inizio né conclusione, non ha premessa e l’antefatto va dedotto dai dialoghi. L’assenza di spiegazioni e di conclusioni che si ha nella vita, la Ginzburg la riporta nella sua sceneggiatura, nel suo teatro del quotidiano, dove si resta sempre in sospeso. Tutto esiste e procede attraverso la chiacchiera, vuota, inutile, simbolica, il cui compito è coprire il silenzio. Un silenzio assordante e omicida che costringerebbe l’individuo a guardarsi dentro e inevitabilmente odiarsi. Non esistono eroismi e comunicare è čechovianamente impossibile, si può solo cianciare. La stessa Natalia paragonò sarcasticamente il fluire irrefrenabile delle voci dei suoi personaggi all’inesorabilità con cui i gatti si leccano.
Altra caratteristica fondamentale della drammaturgia ginzburghiana è l’immobilismo fisico – e non solo - dei personaggi: sia in Fragole e Panna che in Dialogo emerge un completo annullamento dell’azione. Ciò rende il lavoro attoriale molto complesso: riuscire a mantenere alta l’attenzione del pubblico, stando fermi, non è cosa da poco, perché ciò riesca deve essere dinamica, pungente e sagace la scrittura, che in questo caso è tutta giocata sull’ironia, sul motto di spirito sferzante in un contesto deprimente (tipico della cultura ebraica in cui l’autrice affonda le radici).
Negli scritti della Ginzburg è sempre centrale il ruolo delle donne, che fondamentalmente si dividono in due tipologie: quelle che corrono e quelle che non si muovono. Le prime scappano sempre da qualcosa e sono spesso personaggi schiavi di situazioni di povertà o sottomissione, spesso cameriere o reduci da condizioni familiari violente. Le seconde sono coloro che osservano la vita senza parteciparvi, la guardano scorrere inesorabile come fosse uno spettacolo di cui non fanno parte ed è qui che probabilmente l’autrice colloca anche sé stessa. Altra figura onnipresente nelle pièce della scrittrice - e le due messe in scena da Moretti non fanno eccezione - è il personaggio assente, che tace, che non è in scena ma la cui personalità si fa sentire con forza. Michele Apicella (alias di Nanni Moretti) in Ecce Bombo, celebre pellicola del ’78, si domandava «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?», la Ginzburg risponderebbe che in entrambi i casi è meglio che esserci.
Le poetiche di Natalia Ginzburg e Nanni Moretti sono caratterizzate entrambe da un occhio critico, tacitamente ma costantemente polemico nei confronti del circostante. Diari d’amore, che fa riferimento nel titolo a Caro Diario (1993), è una sintesi di questo loro masticar la vita con ironia e disillusione e, poiché la Ginzburg non era solita lasciare didascalie, neanche quelle di battuta, ritenendole superflue, Moretti si è trovato totalmente libero nelle scelte di regia, ma ha sempre mantenuto uno sguardo alle suggestioni intertestuali della scrittrice.
Dialogo, come già accennato, è stata la prima pièce ad andare in scena in questa rappresentazione. Non c’è sipario, ma un leggero telo semitrasparente con scritto a caratteri cubitali il nome dello spettacolo copre la scena e, non appena si solleva, siamo nell’essenziale e tristanzuola camera da letto di una coppia di mezza età, di cui, dagli oggetti di scena, non è facile dedurre lo status economico. Il detto «il mattino ha l’oro in bocca» i due devono averlo prese troppo alla lettera e dalle prime battute non fanno altro che parlare di soldi, quelli che non hanno e che vorrebbero, quelli che altri hanno e non meritano. Francesco (Valerio Binasco) è un nevrotico autoriferito di fresco licenziamento, anche se lui sostiene di essersi dimesso per inseguire la sua vera vocazione: fare lo scrittore. Il suo rapporto con Marta (Alessia Giuliani) è lacerato da stanchezze e frustrazioni, ogni volta che le si rivolge la sminuisce e la maltratta, pattern ricorrente nelle descrizioni dei rapporti uomo-donna della Ginzburg. Lei ingoia con noncuranza dovuta all’abitudine tutte le male parole e questo anche perché ha un segreto da confessare, intorno a cui si girerà a lungo tra chiacchiere e pettegolezzi e poi esploderà tra quelle lenzuola che sono il loro cosmo. Il letto, la safe zone dell’inazione, sembra essere ciò che li tiene uniti, anche più della loro bambina nata da poco che viene nominata ma non appare mai. Il calore che dovrebbe portare una nascita in una famiglia qui è inesistente, della neonata si occupa Concetta, la domestica, indizio di una condizione economica poi non così disastrata.
L’ottima recitazione dei due attori rende giustizia al testo donandogli un dinamismo di cui il movimento fisico è totalmente privo: Francesco a seconda del suo stato d’animo è sdraiato, seduto in pizzo al letto, si contorce, si alza e va ad aprire le tapparelle. Marta resta sdraiata, al massimo si gira, fuma o chiama la domestica. Le luci delle abat-jour sui comodini sono fondamentali a pilotare la loro conversazione: a seconda della profondità, sempre scarsa, degli argomenti vengono accese o spente. Tutto è chiacchiera e non si arriva mai da nessuna parte, anche dopo un colpo di scena che poteva essere sconvolgente, il panorama più convincente resta quello dell’immobilità.
Fragole e Panna ha invece luogo in una grande casa di campagna, in un bosco, lontana dal paese e dalle vite degli altri. Se in Dialogo fuori dalle finestre socchiuse cadeva fitta la pioggia, qui è il turno della neve, che cade con soave costanza, ovattando i rumori e aumentando l’isolamento. La scenografia è composta da due grandi divani verdi di design e per il resto è scarna: la casa è vuota, come l’animo di chi la possiede. Il primo personaggio in scena è Tosca, la serva, interpretata da Daria Deflorian, che si lamenta di tutta quella solitudine, e a lei si aggiunge quasi subito Barbara (Arianna Pozzoli), una diciottenne scappata da una relazione tossica che ha cercato rifugio nella casa del suo amante l’avvocato Cesare (Binasco), che entrerà in scena verso la fine dell’unico atto, ma sarà costantemente nominato e descritto. Il personaggio centrale è però la moglie di quest’ultimo, Flaminia (Giuliani), donna schiava di un rapporto amoroso senza sentimento, in balia di una apatia tale da rendere insignificanti anche i tradimenti di quello che definisce «un uomo da niente». Una donna che conduce un’esistenza per inerzia, che viene però colpita dalla figura della svampita e vitale Barbara, che vuole aiutare come s, sostenendo lei potesse metter rimedio alle sue scelte sbagliate. Flaminia è l’unico personaggio che sembra evolvere internamente durante la pièce e il paragone con la sorella Letizia, interpretata da Giorgia Senesi, donna salda nella sua miopia esistenziale, lo rende evidente. Anche questo spiraglio di cambiamento con cui si conclude l’opera però verrà più probabilmente richiuso che spalancato e questo perché come afferma con rassegnazione l’autrice tramite la voce del suo personaggio specchio «tanto nella nostra vita non accade mai niente».
Costanza Alessandri 17/06/2024