Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Da Camilleri, la storia millenaria di chi non si arrende alle prevaricazioni

“Un posto ci sarà per questa solitudine perché mi sento così inutile davanti alla realtà. Un posto ci sarà, fatto di lava e sole dove la gente sa che è ora di cambiare” (Pino Daniele, “Sicily”)

Montalcino terra di grandi vini, corposi e superbi. Qui, però, sembra che conti soltanto il nettare degli dei, visto che due anni fa è caduto il tetto del Teatro degli Astrusi e non si sono trovati dei finanziamenti necessari per far sì che l'attività riprendesse regolarmente. Il teatro, affidato alla direzione artistica del regista romano, ma trapiantato a Chianciano, Manfredi Rutelli, è stato spostato in una sala del palazzo comunale, riesce comunque, con fatica ma orgogliosamente, a portare quest'anno nel basso senese, tra gli altri, attori importanti come Silvia Frasson (passata da Stefano Massini e Arca Azzurra), Andrea Kaemmerle, animatore di “Utopia del Buongusto”, Simone Cristicchi, oltre alla sua nuova produzione “Il paese più sportivo del mondo” (il 7 febbraio). Si è passati dai 180 posti del teatro all'italiana ai 70 dell'odierna sistemazione provvisoria. Ma, si sa, come le cose in Italia da temporanee diventino immutabili nei decenni. Che duecento produttori di un vino così importante in tutto il mondo non riescano a trovare pochi spiccioli, per i loro fatturati, per rimettere in sesto il teatro e portare accanto al vino anche quelle storie, quella cultura raccontata che passa di bocca in bocca, che migliora la qualità della vita del paese e dei dintorni. Con un piccolo investimento farebbero del bene alla comunità, all'immagine del vino, restituendo alla collettività una cifra infinitesimale dei loro meritati introiti, e ai tanti turisti che affollano in qualsiasi stagione queste crete, queste colline, queste cantine.
Parlare del passato, di un retaggio arcaico pieno di figure magiche ed epiche, per raccontare, tra metafore e leggende, l'oggi. Tentativo andato a buon fine questo “Il Re di Girgenti” (produzione EmmeA' Teatro), dall'inchiostro del romanzo di Andrea Camilleri fino alla scena, intrisa di musica da stornellatore-aedo, la chitarra di Fabio Monti, e i pupi-marionette a filo sospesi ad una sorta di pianola, che sembrano gli impiccati della famiglia Pazzi, governati da Massimo Schuster (nato artisticamente nei Bread & Puppet, oltre che fotografo) che si accompagna ad una piccola arpa irlandese. Barbe folte a confronto. Del primo nel tempo abbiamo visto “Lampedusa è uno spiffero”, del secondo “Western”. Uno strano incrocio, il primo catanese, il secondo lombardo-francese, lontananze che si toccano in un siciliano italianizzato che dona al racconto orale, di battaglie e vendette, di tradimenti e scontri, il sale dell'atmosfera brigantesca da una parte, di rivalsa, rivoluzione, riscossa dall'altra.
Come molti spettacoli teatrali, nati attorno ai festeggiamenti per i 150 anni dall'Unità d'Italia, scritti e messi in piedi da compagnie e autori provenienti dalle regioni del Sud Italia, sottolinearono quell'annessione non come una liberazione ma una vera e propria guerra per accaparrarsi le risorse del Regno delle Due Sicilie. Così, anche in questo “Re di Girgenti” (è il nome antico della città di Agrigento), mitico e complicato come il Mahabharata, si può risalire e ritrovare un'idea non di vendetta ma di rivincita, con echi che ci portano direttamente nelle pagine di Sciascia come alle battaglie di Falcone e Borsellino passando per Caponnetto. Da una parte gli ultimi, i contadini ignoranti relegati alla povertà e ad essere sottomessi, dall'altra il clero e l'esercito a sostegno dei privilegi dei nobili: il rosso e il nero.
I poveri siciliani schiacciati prima dai sabaudi, poi dagli spagnoli, marionette governate da burattinai stranieri senza scrupoli. Il “nostro”, il contadino Zosimo, figura a cavallo tra Masaniello, Garibaldi e Che Guevara (poi avrà sentori e scie da Conte di Montecristo o Silvio Pellico o ancora da Khaled Hosseini, l'autore de “Il cacciatore di aquiloni”), è lo scudiero cristologico che si fa portavoce della protesta che si leva dal basso, quella voce per troppo tempo silenziata che adesso sgorga alta e sfocia in un urlo, grido di battaglia che risuona in “pane, lavoro e libertà”. Da una parte la fatica e la siccità, la carestia e la fame, dall'altra i soprusi fatti patire e scontare. E' Davide contro Golia: qui mancherà l'happy end. Uno sta in campo, in piedi a manovrare i suoi piccoli personaggi (il cumulo dei pupazzetti elettrizza di brividi richiamando immagini nefaste come quelle delle “colline”-fosse comuni provocate dai Khmer rossi in Cambogia), e l'altro “in panchina” suona e stornella, arpeggia e gorgheggia (un Monti modugnesco), si danno il cambio, si accompagnano, si sostengono, il canto aiuta il cunto e viceversa. C'è una rassegnazione zen in questi personaggi sconfitti che nonostante la perdita e l'impotenza e la morte, sanno in cuor loro di essere stati dalla parte giusta senza temere, così, la fine preannunciata. Hanno dimostrato che bisogna continuare a credere e sperare anche se la conclusione è scritta, e che non bisogna mai arrendersi anche se il risultato è già scritto. “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”, ci ha ammonito Paolo Borsellino.

Visto al Teatro Astrusi Off, Montalcino, il 7 dicembre 2015.

Tommaso Chimenti 10/12/2015

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM