ROMA – “Spaccami il cuore ridi e sorridi, spaccami il cuore non ascoltare false e teatrali le mie parole, segui un pensiero dolce e feroce con me” (“Spaccami il cuore”, Paolo Conte, cantata da Mia Martini).
Forse tutto può essere riassunto nella frase che campeggia sui cartelloni della stagione del Teatro Basilicata: “Si prega di non recitare nella vita reale”, monito e ossimoro nel percorso attoriale nella complicata biunivocità sopra e sotto al palco. Non recitare da mestierante ma metterci sempre l'anima. Niente di tutto ciò ha toccato le due interpreti che, tra i mattoni carichi di Storia proprio accanto alla Scala Santa, si sono messe a nudo e hanno aperto il “Cuore” (prod. Gruppo della Creta; interessante la nuova stagione Frammenti) mostrando le crepe, i chiaroscuri, lo sporco, i difetti, i non-detti, i segreti di una vita. Le cose che di solito ti dicono di non dire, per non esporti troppo, per non essere ancora più fragili e delicati di quanto un attore su un palco possa già normalmente sentirsi: senza scudo, senza difese, senza pelle, vulnerabile ai respiri. E' stato un bel connubio questo tra la danzatrice Daniela Giovannetti e l'attrice Alvia Reale (anche in veste di regista), strade e carriere differenti ma un unico comune denominatore: per ricominciare a calcare la scena dopo tutto questo prolungato e forzato stop, a sondare il pubblico, hanno voluto mettere la loro carne sulla bilancia della vita, hanno voluto soppesare quanto la pandemia, la distanza, l'impossibilità lavorativa avesse cambiato le loro prerogative e priorità. E' mutato infatti il loro rapporto con la scena (qui netta di Francesco Calcagnini) e ne è scaturito un lavoro intimo, riflessivo, che apre e spazia, che prende e getta, che ti colpisce alla pancia, un vomito costruttivo costruito e calibrato per arrivare là fin dove si sono spinte, in questa materia bollente e lavica che è la vita con le sue rughe, le sue disfatte, i drammi, le cadute. Uno spettacolo che è una piccola rivincita. Le due donne (prima che attrici sono donne) si sono lasciate attraversare dalla vita, vissuta a pieno, ne hanno colto le conseguenze, non sono fuggite alle proprie responsabilità e a noi si sono donate per riconoscere nella zoomata all'interno del loro tempo quella universalità che pervade, come elettricità, quelle di tutti, per non sentirsi soli né abbandonati, per ritrovarsi come comunità in un abbraccio ideale. “L’uomo è dove è il suo cuore, non dove è il suo corpo” (Mahatma Gandhi).
Un racconto a doppia mandata, alternandosi come su un'altalena, passandosi il testimone, oscillando un proiettore, dentro le pieghe delle loro autobiografie. E ci tengono nel sottolineare la totale autenticità e veridicità dei fatti che hanno immesso nell'agorà, a volte stupendoci, altre sorprendendo, altre ancora scioccando, spesso commuovendo. Non hanno avuto timori, remore o tremori, in ogni scena (la drammaturgia tesa alla pulizia linguistica di Angela Di Maso) si sono lanciate, non hanno gettato il “Cuore” oltre l'ostacolo ma se lo sono tenuto lì, vicino a loro, stretto, perché non fuggisse, perché non si rintanasse dietro una di queste solide colonne che reggono l'edificio, come se l'anima che ci hanno messo, la linfa, il sudore nel vivere e nel recitare, fosse e rimanesse pilastro e radici imprescindibili al di là di qualsiasi avvenimento accaduto, di qualsiasi evento che le ha ferite, offese, tradite. I capitoli da una parte fanno salire l'intensità, mentre dall'altra scendono in profondità emozionale, l'asticella si alza, i respiri friggono sotto le mascherine, i cuori pompano. “Tutto nel cuore. E tutto il cuore in tutto” (Patrizia Valduga).
L'inizio con la sega elettrica (vera anche quella) sembra il preludio ad uno sfogo contro qualcosa o qualcuno, un tagliare i rami secchi, un eliminare quello che ci ha fatto male nel corso degli anni; invece scopriamo che le due protagoniste non hanno nessuna voglia di cancellare, anzi, hanno fatto pace con il proprio passato e, proprio perché ne hanno preso coscienza e adesso sono consapevoli che tutto il vissuto ha fatto sì che divenissero le donne che sono oggi, lo hanno accolto. “Non togliermi neppure una ruga – diceva la grande Anna Magnani alle truccatrici – le ho pagate tutte care”. E' un racconto che ha una forma leggera intriso però di forza dura, senza sconti, passando dal rapporto acre con qualche collega o grande regista che spesso trattano gli attori come esecutori e non come persone. Alvia Reale ha la dirompenza di un Montag in Fahrenheit 451, guerresca e guerreggiante, Daniela Giovannetti, in rosa tenue, sommessa sorseggia l'aria come libellula. “I drammi più commoventi non si svolgono nei teatri ma nel cuore degli uomini” (Carl Gustav Jung).
La prima ci racconta come la gravidanza l'abbia eliminata dal mondo del teatro, l'altra del grave incidente alle gambe che le ha distrutto un sogno che era partito scoppiettante direttamente dalle trasmissioni della Carrà. Fare i bilanci, invece che mettere la polvere sotto il tappeto, è sintomo di grande onestà, soprattutto con se stessi, fare pulizia e lasciare spazio per affrontare e ricevere e ospitare il futuro. La Reale (canta divinamente, da “Pensiero stupendo” fino a una Mina rivisitata) srotola con lentezza e calma placida i centrini tessuti dalla madre da poco scomparsa; crea una sorta di tappeto dove si riconoscono i disegni ma anche la storia, la trama, l'arte di vite ricamate da una madre che aveva lasciato l'uomo che l'aveva messa incinta perché la voleva fare abortire. Vite difficili, vite riscattate con la fatica, con l'impegno, con il talento, con il coltello tra i denti tra sensi di colpa, senso di inadeguatezza, insicurezze ma sempre coerenti e oneste. E' una resa dei conti (“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien” potremmo aggiungere) che passa anche attraverso errori che non si rimarginano e che sfocia nel capitolo conclusivo che scuote: mentre la Giovannetti veniva “salvata” da un gatto quando aveva smesso di nutrirsi, la Reale, dopo la separazione, non avendo spazio, decise di lasciare il proprio cane al canile con l'intenzione, dopo qualche mese, quando avesse trovato un'altra sistemazione, di riprenderlo; quando tornerà per riabbracciarlo il cane nel frattempo si era lasciato morire. E' una scarica di adrenalina alla quale non hanno voluto rinunciare, non hanno voluto nascondere niente, “niente trucco per me, perché non sia il gioco di un'ora. Sai che ho anch'io ho la mia storia, sia la vita, la scena”.
Tommaso Chimenti 08/10/2021
Foto: Francesco Calcagnini