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Colpi di Scena si tinge di olandese: Orange is the new theatre

FORLI' – Senza voler essere necessariamente esterofili, le due proposte provenienti dall'Olanda, all'interno del fitto e corposo cartellone della rassegna “Colpi di Scena” (organizzato da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Ater Fondazione), festival di teatro per ragazzi e giovani tra Forlì e Faenza, sono state le più incisive, sicuramente le più moderne e contemporanee, con linguaggi aperti a riflessioni stratificate, interessantissime suggestioni piene di senso e contenuti adatti ad ogni età e non chiusi nella scatola-definizione-dicitura-didascalia “teatro ragazzi” che alle nostre latitudini limita la visuale e semplifica l'immaginazione.

Per primi ci siamo trovati davanti ad “Hermit” (significa “Eremita”) del gruppo Simone De Jong Company, mezz'ora di purezza, trenta minuti da vivere, respirare, capire, assaporare. Tutto si svolge dentro, a fianco, attorno ad un cubo. Facile il primo aggancio semiotico e sentimentale al Cubo di Rubik o, al limite, ai bozzoli di Cocoon; infatti siamo davanti ad un rompicapo, ad un bivio esistenziale, ad un passaggio in perenne contraddizione tra la voglia di stare e quella di scappare, tra il desiderio di abitarlo e quello di cercare la libertà trovandosi di volta in volta insoddisfatti e delusi da una CairoHermitIMG-20200307-WA0000.jpgdelle due condizioni. Dentro il cubo-bara una lucina ne illumina le pareti e subito ci appaiono i classici segni semicircolari di una ecografia: nasciamo da un luogo claustrofobico ma caldo, costrittivo ma comodo e, durante l'esistenza, ci muoviamo come trottole per ricercare e ritrovare quella sensazione di pace e di benessere. Sembra un lavoro scritto durante la pandemia, o almeno sembra calato in questi nostri tempi dove più che l'andare fisico sembra che ci basti viaggiare sepolti e impigriti dai nostri divani, sprofondati nei letti o nelle poltrone delle scrivanie con l'illusoria convinzione, malsana e ipocrita, che ci vendono i nostri smartphone facendoci credere che tutto sia a portata di click quando sullo schermo la realtà che vediamo è soltanto bidimensionale mancando la profondità, mancando appunto noi dentro quel panorama. Il nostro protagonista (sembra un astronauta nella sua navicella, sembra un giapponese nel suo loculo) se ne sta rannicchiato dentro, compresso, è come impaurito; ai tanti campanelli che installa all'esterno delle pareti protettive del suo guscio, sonagli che evidentemente dovrebbero logicamente servire per essere trovato, risponde perennemente con “Non sono in casa” non volendo entrare in nessuna relazione con gli altri, affetto da una forma di patologica misantropia accelerata all'ennesima potenza. Quando la sua voglia di uscire si fa esondante e finalmente riesce a prendere coraggio per esplorare gli intorni del suo spazio e prendere consapevolezza del proprio corpo al di là dei confini imposti dalla sua pelle, esce dall'oblò e comincia una furiosa e forsennata corsa felice e liberatoria e di risate a bocca piena, gambe in spalle che sanno di gioia e soprattutto libertà. Ma, come kleur-_dadodans_foto-ben-van-duin-12.jpgsi dice, se non puoi uscire dal tuo tunnel allora arredalo. Una volta resosi conto della presenza di tanti sconosciuti, di molti occhi a fissarlo, la paura e il timore del contatto (forse del contagio) lo assale ferocemente facendolo ritirare dentro la sua sicurezza e fortezza. Con il lockdown è cambiata radicalmente l'idea di casa; adesso l'abitazione è una propaggine di sé, come la chitarra per Jimi Hendrix, ci deve assomigliare perché lì dentro ci passiamo, ci passeremo molto tempo. E la riflessione prende una piega drammatica: se possiamo stare tranquillamente in casa e lì lavorare non abbiamo più bisogno di uscire per raggiungere il posto di lavoro, non ho più bisogno del cinema perché ho Netflix e Prime Amazon, non ho bisogno di andare a fare la spesa perché me la porta direttamente un deliveroo, non ho più bisogno di relazioni perché parlo con Alexa, posso chattare con sconosciuti e tutto risulta essere anche più asettico e pulito. Quando non vado d'accordo con qualcuno posso bannarlo o bloccarlo e cancellarlo così che il problema viene estirpato alla radice. La paura dell'altro ci fa rinchiudere nel nostro guscio di chiocciola, come un paguro nella conchiglia, come una tartaruga all'interno del carapace. Questo chiudersi al mondo, illudendosi di lasciare fuori di casa i problemi, crea nuovi hikikomori: il futuro è grigio, bisogna per questo aprire le finestre per cambiare l'aria e respirare a pieni polmoni. Gli altri non sono un problema, il problema siamo noi stessi.

Anche il secondo “Kleur+” (significa “Colore”) della compagnia Dadodans è una performance senza preclusioni, per tutti i tipi di pubblico. Kleur-DadoDans-82-scaled.jpgUn gioco di una performer (concept e coreografia di Gaia Gonnelli) immersa in una scena dove la fanno da padroni visivamente palle argentate di varie dimensioni. E qui scattano due illuminazioni, due direzioni che sembrano opposte anche se entrambe hanno a che vedere con la creazione, con la nascita. La prima è che l'attrice potrebbe essere la metafora di Dio, o per esso la Natura, che gioca a dadi con gli uomini in questo sistema solare che sposta a piacimento, muove, fa rotolare galileianamente. Facendo tintinnare e barcollare le sfere qualcuna si apre e si rompe facendo fuoriuscire della polvere rossa, allegoria della saharizzazione del mondo come del tanto sangue versato dall'uomo, sua creatura principale fatto a sua immagine e somiglianza, come se giocasse con il sangue, calpestandolo, e con le continue guerre degli uomini stolti. Quelle strisce rossastre ricordano il sangue rimasto nell'arena, nella Plaza de Toros dopo che il bovino imbufalito è stato trascinato, ormai morto, fuori dalla corrida con il carro dei cavalli. Il rosso che imbratta la scena, che alla fine sarà di pollockiana memoria (ma potremmo andare anche a Kandinsky o Rothko) apre alla seconda immagine forte esplicita che balena quando la grossa goccia, che è appesa come un gigantesco punchingball pugilistico a mezz'aria, anch'essa si apre e lascia colare (come la rottura delle acque) liquido di vernici impastanti appiccicose. Potremmo essere all'interno di un utero e la maxigoccia essere l'ovulo: certamente un'immagine potente. Due proposte che ci fanno capire in quale direzione stia andando non soltanto il teatro ma anche il teatro ragazzi nel mondo dove non esistono distinzioni e non esistono categorie, perché fondamentalmente ci sono solamente due tipi di teatro: quello fatto bene e quello fatto male. L'arancione rimane un bel colore.

Tommaso Chimenti 02/07/2022

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