FORLI' – In Romagna il teatro è una cosa seria. Basti pensare al Teatro delle Albe, alla Societas Raffaello Sanzio, all'Arboreto di Mondaino, al Festival Santarcangelo dei Teatri, ai Motus o ai Fanny Alexander. Solo per citarne alcuni. E Forlì non è da meno con i suoi 110.000 abitanti e ben cinque spazi. La direzione artistica di Accademia Perduta (Ruggero Sintoni e Claudio Casadio) ha messo in piedi la prima edizione di “Colpi di scena” che se nelle annate precedenti era dedicato al teatro per ragazzi quest'anno era rivolto ad uno sguardo sul teatro contemporaneo per adulti. Tre giorni fitti di appuntamenti divisi tra il Teatro San Luigi, il Testori, il Piccolo e il Diego Fabbri, tutti a Forlì, e il Goldoni a Bagnacavallo e il Socjale a Piangipane. Colpi di sole, colpi di testa, colpi di fortuna, colpi d'arma, colpi di remi, colpi di sonno, colpi di genio, colpi da biliardo. Colpi e corpi.
Due i lavori che ci hanno intrigato maggiormente che hanno riflettuto sulla diversità. Se il banale politicamente corretto ha trasformato qualsiasi sostantivo in contorte ed ipocrite perifrasi (il cieco è diventato non vedente, lo spazzino è ora un operatore ecologico, il sordo è un audioleso), per le persone affette da nanismo non si è trovato un nuovo espediente linguistico. Ed è curioso che ne “L'ombra lunga del nano” (prod. Società per Attori, Accademia Perduta), della compagnia Les Moustaches, Claudio Gaetani, un nano, interpretasse proprio un nano anche se il teatro è lo spazio della finzione. Già questa identificazione fisica tra persona e personaggio ha rotto le regole della scena dove tutto è possibile soltanto mimandolo, nominandolo o accennandolo. Sta di fatto che “L'ombra lunga” (un titolo ossimorico vista l'altezza del protagonista) parla di accettazione anche con risvolti amari. Lui è Olo, come i suffissi dei famosi nani della fiaba per eccellenza a loro dedicata (Brontolo, Pisolo,...), Lei è ovviamente Neve. Insomma lui è quello dei sette che è riuscito a farla innamorare ed a portarla all'altare. Ma l'amore è una cosa, il matrimonio un'altra. E così sono sopraggiunti la noia, la routine, la scontatezza. Un bell'intro, con la voce infinita di Maria Paiato, ci apre le porte del letto nuziale un tempo fulcro di passione e oggi di dinieghi. Il boccascena è arredato di mele come fossero le lampadine dei teatri di varietà. Non si capiscono più, non si sopportano. Ma capita che un giorno il nano passi davanti ad una lampada e la sua ombra risulti immensa, sovrumana come quella di un gigante, il suo opposto. Inizia un corteggiamento serrato tra il gigante e Neve (Ludovica D'Auria convincente e conturbante) che sembra rinnegare gli anni con Olo e che adesso vorrebbe accanto a sé un uomo forte e poderoso. Non profuma molto di inclusione, anzi, la nostra eroina, eccitata, ci fa capire che non solo il sentimento è finito ma che, proprio fisicamente, avrebbe bisogno di novità rifiutando l'aspetto esteriore del marito per cercare l'antitetico che evidentemente le è mancato. Il nano si sente un fallito e solo con l'escamotage dell'ombra riesce ad avere un rapporto con la moglie che ormai fantastica sulle proporzioni del gigante inesistente. Sembra la scena dietro la siepe con Cyrano che presta la sua poesia a Cristiano per far cadere tra le sue braccia Rossana. Potrebbe essere un buon spettacolo di teatro ragazzi se “ripulito” da qualche parola e scena “hot”, per il resto rimane a metà strada tra una leggerezza fiabesca e contenuti che si fanno drammatici soprattutto sul finale che potrebbe essere letto come un tragico triste addio anticipato (Romeo e Giulietta) scioccante visto il climax tenue dell'intera piece.
Da anni in molti ci parlavano dell'Amleto di Massimiliano Burini, “Un principe”, e della sua compagnia Occhisulmondo che non siamo riusciti a vedere. E adesso abbiamo capito il perché. Questo nuovo “Il nero” (prod. Fontemaggiore, Corte Ospitale, Teatro delle Briciole) che miscela arditamente, e ad una prima occhiata forzatamente, il Bataclan e la situazione degli islamici in Francia e in particolare a Parigi con l'Otello shakespeariano, trasuda di un rigore estetico che diventa estatico, di una coerenza spietata senza perdersi in rigidità, raffinato e delicato, preciso e tagliente. I sei personaggi, non pirandelliani, con maschere ad addobbare e trasformare i loro volti, stanno nascosti dietro un grande telo (che ci ha ricordato l'arazzo di Polonio). C'è una ricerca spasmodica sul fronte ombre e le luci (inconfondibili di Gianni Staropoli), sui suoni e le musiche, su questi grandi fari latelliani accecanti da Inquisizione. Un grande lavoro minimalista che riavvicina la magia eterna del teatro con l'essenza più intima della scena, semplici artifici artigianali che riescono a respirare e dialogare insieme agli attori. Un'opera estremamente elegante, dalle linee pulite, rarefatta e rara, lieve, fragile e feroce, netta e violenta.
Eccoci invece ai comizi teatrali (da non confondere con quelli d'amore pasoliniani), alle tesi preconfezionate e portate su un palco per convincere, indottrinare. Il teatro dovrebbe lasciare domande e dubbi, punti interrogativi non certezze scolpite nella pietra e verità inossidabili. “Black dick” (prod. Casavuota, Gender Bender Festival) di Alessandro Berti (intelligente e arguto performer) gioca, volendo combattere i pregiudizi, sul pregiudizio che la colpa di qualsiasi danno nel mondo moderno sia da attribuire, senza possibilità di smentita, all'uomo bianco, meglio se etero e cattolico. Per argomentare la sua riflessione (e lo fa anche sciorinando canzoni a cappella e un inglese fluido) utilizza e sfrutta un approccio discutibile, strumentalizzandolo, un fatto delittuoso che ha scioccato l'Italia, lo stupro della ragazza polacca sulla spiaggia di Rimini (sett. '17) da parte di quattro delinquenti di origine africana. Da qui (la percezione è che questa sia proprio un'uscita infelice) parte la sua digressione sull'idea che l'uomo bianco (evidentemente per la teoria spiccia e popolana dell'invidia del pene con l'uomo afro) ha apposto sull'uomo nero. Uno spettacolo che ci dice (anzi ci vuole insegnare, ma forse lo sappiamo già) che non ci sono differenze tra gli uomini e che poi, per tutta la sua durata, identifica l'uno con “uomo bianco” (nemmeno caucasico) e l'altro con “uomo nero” (come quello delle filastrocche che veniva a rapire i bambini). L'indagine si sposta sul mondo del porno che, da quanto si evince in “Black dick”, è fruito soltanto da uomini e donne bianche. Ne viene fuori un'accusa martellante, una piece per chi ha continui sensi di colpa e rimorsi di coscienza con la propria identità culturale e vuole farsi perdonare chissà quali peccati commessi dai propri antenati.
Altra conferenza squisitamente politica è “Gli Altri” della compagnia Kepler 452 (prod. ERT, L'Arboreto, La Corte Ospitale) che, come “Black dick”, prende spunto e attacco e incipit da un evento delittuoso; stavolta la vicenda della tedesca Carola Rackete che nel giugno '19 su nave battente bandiera olandese, la Sea Watch 3, aveva speronato un'imbarcazione della Guardia Costiera italiana forzando il blocco navale e per questo arrestata. E rilasciata dopo pochi giorni con tanto di nostre scuse, prostrati ai diktat europei. Ovviamente sappiamo da che parte stanno Nicola Borghesi e soci, la distinzione tra buoni e cattivi è netta fin dall'inizio. Ma il loro ragionamento si sposta dalla Rackete (nel frattempo l'esterofilia italica l'ha elevata a eroina e paladina) a qualche povero cristo che sulla banchina di Lampedusa (esasperato, ma certo non per questo giustificato, dai continui sbarchi di migranti clandestini) offese la tedesca. E qui entra in gioco la grandezza di questa argomentazione scenica: per raccontare l'odio e la rabbia, per dire che dobbiamo volerci tutti più bene e darci più amore, per compattare un pubblico progressista e aperto e illuminato già unito di fondo sulle stesse tesi, per un'ora viene preso come bersaglio un cittadino lampedusano, per farne carne da cannone, simbolo e fantoccio di scherno, viene irriso, dileggiato, canzonato. Soprattutto uno in particolare, Mario Lombardino, che si sfogò con frasi gravi nei confronti della capitana. Però si sente un'acredine camuffata da sfottò, un astio culturale nascosto dietro piccole ipocrisie. La vita di Lombardino (avrà visto lo spettacolo? Avrà dato il suo consenso ad essere pubblicamente deriso?) viene messa sotto il riflettore di un'indagine al limite dell'ossessione senza alcun imbarazzo: il suo profilo Facebook scandagliato, la figlia, la pizzeria, la separazione, la disoccupazione, lo spostamento a Milano, sbeffeggiandone anche i suoi gusti musicali e disprezzando con ironia tagliente il suo unico svago sull'isola: girare di notte con la macchina.
Ne esce fuori uno scontro tra Davide-Mario e Golia-Borghesi, e la platea sentendosi evidentemente superiore per censo, classe, istruzione, ride di “quella gente là” che “non avrà letto nemmeno la Pimpa”, sicuramente “analfabeta” e “la cosa peggiore è che questa gente vota” e bisognerebbe “togliergli i diritti civili”. Il povero Mario (il confronto è impari e la satira dovrebbe sempre scagliarsi contro i potenti e non contro gli ultimi) viene registrato telefonicamente (qui ha dato il suo assenso verbalmente) e le sue parole immesse nell'agorà teatrale senza contraddittorio né difesa quasi fosse un processo (che comunque non dovrebbero fare né i giornalisti né gli attori). Alla fine però, dopo un'ora di giudizi burleschi con le lame della dialettica (contro le quali Mario non può niente, ce lo dice proprio Borghesi che purtroppo il pizzaiolo non ha potuto studiare), il frontman dei Kepler ci spiega che non dobbiamo giudicare. Due pesi e due misure.
Dovremmo avere più cura degli “Altri” anche se non la pensano come noi. L'importanza dell'I care.
Tommaso Chimenti 04/10/2021