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“Le cinque rose” dei Fratelli Russo: desolazione e Mina, senza salvezza

BOLOGNA – Sarebbe troppo semplicistico bollare “Le cinque rose di Jennifer”, manifesto di Annibale Ruccello, come un thriller, un noir, un giallo. Certo, c'è un'inquietudine di fondo, un disagio che si taglia a fette, una cappa claustrofobica che opprime e soffoca, del sangue, un assassino. Ed è importante la messinscena a cura del Teatro Bellini, con i fratelli Russo (Gabriele in regia e Daniele in scena; 1h 20' di teatro altissimo) binomio e incastro prolifico che dà sempre buoni frutti. Una scena (di Lucia Imperato) che ci immerge in un ricettacolo - boudoir dove il rosso campeggia, violento e aggressivo, colante di pizzi e tulle e un buio dell'anima che si mangia tutto (luci di Salvatore Palladino), che avanza, ingloba, aumenta, annerisce, fagocita le esistenze dentro questo cerchio le rose di jennifer_1736 ph Mario Spada-3.jpgdisegnato a terra, questo perimetro dentro il quale essere maschera, finzione, altro da sé. De “Le cinque rose” vedemmo, qualche stagione scorsa, una versione diretta e interpretata da Arturo Cirillo. Jennifer, un travestito dei Quartieri o un femminiello della via Toledo raccontata da Patroni Griffi, rimane tutto il giorno chiuso in questa casa-museo postribolo (e qui ci è venuto in mente il lockdown), murato vivo (hikikomori ante litteram) attendendo la telefonata di Franco (“Aspettando Godot”), col quale ha avuto una fugace avventura di una notte, chiamata che ovviamente mai arriverà.

I drappi,le-cinque-rose-di-jennifer_0770_Ph-Mario-Spada-1024x681.jpg il baule, il divano hanno uno strano sapore a metà tra le luci rosse da peep show olandese e il testosterone ansimante, l'appiccicaticcio spermatico e il marcio di fiori putrefatti andati a male cimiteriali, il sudore rancido e i bicipiti troppo gonfiati, la puntura dei tacchi a spillo (costumi di Chiara Aversano) e un sentore soffice di un'accoglienza sporca, di un affetto colloso di strass, di un amore di plastica che non consola. Le interferenze telefoniche (che ci raccontano di una Napoli che sta crescendo ed espandendosi nell'edilizia anni '80) sono il crack ironico dentro un dramma esistenziale, dentro un'identità dolorosa e socialmente non accettata, dentro desideri che non si possono dire ad alta voce, dentro miserie madide, accucciandosi e rifocillandosi soltanto delle emozioni che provengono dalle frequenze della radio (anche questa gracchiante, perché non funziona niente in questo basso, reale e metaforico) da Mina a Patty Pravo, da Romina Power alla Vanoni fino a Gabriella Ferri, donne combattive e agguerrite e arrabbiate che hanno cantato la solitudine di chi ama non ricambiato. Il telefono e la radio sono due veri e propri personaggi in questo ricettacolo con i quali instaurare un dialogo dal quale sgorgano frustrazioni e sfoghi, rabbie e malesseri. Ma non sono gli unici “attori” in scena con i quali creare rimandi e fare da specchio a Jennifer-Daniele Russo (di raro impatto e prestanza, sicurezza senza alcuna sicumera); si aggira quest'ombra scura (Sergio Del Prete, figura marginale ma centrale che illumina di senso il focus del racconto, creando un doppio, un rimbalzo psicoanalitico, alter ego d'abisso e voragine) che pare una beghina, un monaciello, la Befana, ricorda Quasimodo, il gobbo di Notre Dame, una prefica, le donne che piangevano a pagamento ai funerali, dalla faccia bianca cadaverica e zombie allarmante, un'oscurità che grava e aleggia e s'abbatte e ruota attorno come avvoltoio in cerca di carcasse, come presenza di pece che vorticosamente attende la sua (prossima) vittima.le-cinque-rose-di-Jennifer-Bellini-2-640x341.png

Dateatro.it-le-cinque-rose-di-jennifer-daniele-russo-01.jpg un lato Jennifer aspetta Franco (nome non casuale nell'accezione di sincero, schietto, cosa che l'uomo non è stato con il/la protagonista) nel suo tugurio agghindato e abbellito da profumi scadenti e paraventi di raso in questo habitat chiuso e piccolo e asfissiante, microcosmo opprimente, senza ossigeno né aria respirabile, dall'altro fuori c'è il mondo (ed è la figura che incombe pericolosa, misteriosa e mistica) che entra attraverso la radio che ci racconta di un intorno violento dove “quelli come lui”, rifiutati dai benpensanti, i travestiti, vengono trucidati ed eliminati da un maniaco come mosche (forse qui ci potrebbe essere un accenno all'Hiv che da lì a poco mieterà molte vittime nella comunità mondiale Lgbt) senza che la società civile prenda sul serio la faccenda, anzi sembra quasi un'agognata pulizia per ridare decoro all'ormai sgretolata scala valoriale e morale.

In questa frizione, il mondo di Jennifer è un tondo come fosse un'isola di sogno, un tappeto soffice di nuvola dove rimbalzano i passi come Uomo sulla Luna, in questa frontiera e frattura i colori sbafati da circo si impastano con la disperazione da bambola interrotta, da Barbie spezzata dove l'immaginazione crea mondi paralleli, psichedelici in un intorno dall'umanità assente, dai silenzi pieni e consistenti, dall'emarginazione che ingabbia, recinta, barrica facendo annegare nel fango dell'insoddisfazione, dell'infelicità, della depressione, dell'angoscia, senza una boa di salvataggio. “Le cinque rose” sono un urlo, un grido d'allarme inascoltato, un clown che ride piangendo.

Tommaso Chimenti 13/03/2023

 

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