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Chi non "Balla" nella vita gode solo a metà

LIVORNO – “Il ballo è la manifestazione verticale di un desiderio orizzontale” (Woody Allen).

Ballano i topi quando il gatto non c'è, balla il ballerino di Dalla, e c'è chi balla coi lupi, mentre Bruce Springsteen balla nel buio. Sembra che il ballare o il danzare sia il verbo, e questo fin dalla notte dei tempi, dai riti magici ancestrali e primitivi, che più identifichi per l'uomo l'essere vivo, attivo, nel pieno delle sue forze, felice, integrato con il proprio corpo, con la Natura circostante, con il Creato. Come diceva John Dryden: “Ballare è la poesia dei piedi”. Come i dervisci rotanti che attraverso la forza centrifuga di gambe, piedi e braccia raggiungevano il Nirvana o uno stato di catarsi che li avvicinava a Dio ripulendoli dalla polvere terrena, dalla banalità della piccola vita umana. Se ballare è appunto l'azione per eccellenza per 01ballafotografare uno stato di grazia tra il proprio corpo e l'Universo, in questo “Balla” (visto al Teatro delle Commedie, atto conclusivo della rassegna “Utopia del Buongusto”) la posizione predominante e lampante è la staticità, la fermezza, l'immobilità. Andrea Kaemmerle, attore selvatico e sensibile, qui intreccia i fili della sua verve noir e comica con le parole di un racconto cechoviano (“Il violino di Rotschild”) e le fa risuonare nella sua grancassa ovattandole di risa amare, velandole di una mestizia in chiaroscuro, di una malinconia che dilania e morde nell'impossibilità di cambiare le cose, nell'impassibilità, nell'impotenza.
E' un Kaemmerle diverso questo, che cerca nuove sponde, meno clownesco e più dedito e devoto alla riflessione. Non è vero, non è giusto: all'introspezione analitica esistenziale ci ha sempre abituato ma nelle precedenti prove la profondità, per pudore, per paura di pesantezza, era sempre lastricata o spalmata come marmellata da una dose carica di venature poetico-suadenti, dal sorriso sornione e sarcastico. Qui viene fuori l'animo tragico, la cappa che incombe sulle nostre vite. Il nostro, faccia bianca funerea e naso rosso da patologia, è il falegname Joseph, che potrebbe essere Geppetto, che costruisce bare, abbrutito, perdente, perennemente arrabbiato e corroso. E' un povero suonatore di violino, e qui si aprono delle parentesi che ci portano prima a Nathan Zuckerman, il personaggio chiave dei romanzi di Philip Roth, e dall'altro lato alle figure di Edgar Lee Masters. Una stanza ombrosa, come le parole che colano in questo monologo a due voci, un salotto cupo e claustrofobico come il rapporto ultradecennale tra marito e moglie, dove si respira miseria senza alcuna nobiltà, povertà tangibile e metaforica, disperazione.
02ballaIn una sedia a dondolo giace la moglie Marfa che va avanti e indietro in un movimento ossessivo molleggiante. Marfa (nel cui nome sono racchiusi il “mare” e il “fare”, termine e verbo che indicano lo spostarsi, l'essere in azione, ossimoro della vita da “segregata” che aveva condotto la donna nel piccolo borgo) è in realtà un manichino costruito da Federico Biancalani (scenografo, tra gli altri, anche di Michele Sinisi o Ciro Masella) con movenze, scatti e gesti che la fanno sembrare inquietantemente viva. Il falegname becchino si sfoga con la donna che solida resta impassibile nel suo incedere autistico, resiste alle invettive del marito incattivito e ingiallito dall'astio, alle sue lamentele continue senza soluzione, al suo restare imprigionato e impigliato in un'esistenza scalcinata e sgangherata che non ha regalato loro alcuna comodità o felicità.
Ma è quando quella sedia, prima occupata dal manichino realistico si fa vuota per il decesso dell'anziana compagna che si percepisce netto e salato il contraccolpo dell'assenza; quella poltrona adesso ferma è un monito contro l'indifferenza. Il monologo a due non si spezza con la mancanza, prima silenziosa, della moglie che anzi adesso sembra riempire l'incolmabile, spiegare il miracolo dell'inspiegabile, sembra avvicinarci al mistero insondabile della vita. Che va vissuta senza rimpianti. Come quel ballo a due che non c'è mai stato tra Joseph e Marfa.

E coloro che furono visti danzare erano ritenuti pazzi da coloro che non potevano ascoltare la musica(Friedrich Nietzsche).

Tommaso Chimenti 31/10/2016

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