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“Che vuoi farci, bisogna vivere!”: lo Zio Vanja è in scena al Teatro Arcobaleno

Le annotazioni di scena di Cechov sanno essere poetiche quanto l’opera stessa. Ad esempio, all’inizio dell’atto quarto de “Lo zio Vanja” c’è una lunghissima e dettagliata descrizione del luogo in cui si svolge l’azione – la stanza di Ivan Petrovic, lo “zio Vanja” – piena di meravigliosi dettagli che nella messa in scena non serviranno mai: «Alla parete, una carta geografica dell’Africa, che palesemente non serve a nessuno» o ancora «Presso la porta di destra è stata collocata una stuoia: perché i contadini che entrano non sporchino». Dettagli invisibili allo spettatore, a esclusivo beneficio del lettore (o del regista molto accorto).
In questa riduzione del Teatro Arcobaleno invece si lascia, comprensibilmente, da parte il dettaglio e l’ambientazione rimane vaga: abbiamo degli interni che potrebbero essere usciti da una commedia di Eduardo (con tanto di odori da cucina appesi e sedie “sgarrupate”), il suono di un grammofono con una musica ballabile da primo Novecento, vezzosi vestitini gialli anni ’60 e canovacci da cucina del tipo che ognuno di noi ha vicino al lavello da anni, ma non ricorda di aver mai comprato.
È vero, mettere in scena uno Zio Vanja integrale e filologicamente fedele è impegnativo e, forse, non così indispensabile. Ben vengano le rivisitazioni. Condivisibile la scelta di ridurre la pièce a due atti. Ma sono così necessari i riferimenti metatestuali? Il continuo rivolgersi al pubblico, il salire e scendere dal palco, l’appello al siparista? È questo che rende una rilettura “moderna”?
Un cast di sei elementi, poi, deve necessariamente sacrificare qualche personaggio. Del professor Vladìmirovic, ridotto in questa versione a un’ombra silenziosa su un telo, forse non sentiamo la mancanza, così come della bambinaia. Stessa sorte per Màrija Vasìlievna, madre di Ivan Petrovic, ormai un ritratto su cui piangere. Come necessario contraltare di queste assenze, alcune trasformazioni: il viscido Telegin (Ciro Carlo Fico) diventa un timido intermezzo comico, il dolcissimo – non a caso – “Dente cariato”; più complesso è comprendere perché quello che nel testo originale è un marginale garzone (Mattia Giovanni Grazioli) diventi qui chiassoso compagno di giochi e bevute.
D’altronde, se c’è un problema in questa riduzione, è l’isterismo. Sedie che volano, cori di ubriachi e un finale di primo atto con urla e movimenti esasperati che ricordano un po’ un certo tipo di teatro sperimentale. Piacevole, d’altro canto, l’attenzione che si dà al rapporto di complicità fra Elena (Francesca Sgheri) e Sonja (Maria Vittoria Pellecchia) o la tenerezza con cui si è scelto di rendere Vanja (Sandro Calabrese).
Alla fine si può dire che del testo originale si conserva il nome, ma qui il vero protagonista è Àstrov (Duccio Camerini, anche regista). È il personaggio più complesso e tridimensionale, con più spazio in scena. Un’interpretazione carica e convincente.
Nel finale, a differenza de “Il giardino dei ciliegi” e “Il gabbiano”, “Lo zio Vanja” non chiosa con un semplice «cala la tela». Qui Cechov, il Cechov della cartina dell’Africa che nessuno guarda e della stuoia per le scarpe fangose dei contadini, aggiunge un “lentamente”. Cala lentamente la tela. È bello che questa accortezza sia stata rispettata, lo spettacolo sfuma pian piano insieme alle voci e ai movimenti degli attori che rimangono assopiti e congelati, cullati dall’applauso della sala.

Eliana Rizzi 18/04/2016

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