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Castello indaga su Chi ha paura del maschio “Alfa”?

LUCCA – “Sei solo nato nel momento storico peggiore per essere un maschio bianco, eterosessuale e cristiano” (Chuck Palahniuk, “Red Sultan's Big Boy” in “Romance”)

In bilico tra l'inno e la ridicolizzazione, come è nelle corde sarcastiche e pungenti di Roberto Castello, veleggia questo maschio “Alfa” da più parti, negli ultimi decenni, demonizzato, irriso, vilipeso come uno straccio vecchio, come un corpo appartenente a una antica mentalità, a una condizione e concezione vintage dell'evoluzione. Eppure il maschio alfa è la prosecuzione della specie, è il dominante capobranco testosteronico che regge il peso di una comunità. E, sia in natura che nella società civile, è un efficace ed essenziale momento di consolidamento e raccordo di speranze e intuiti, di sintesi di un pensiero, di una semplice linearità salvifica. Un'altalena di aspettative e ricorsi, un'oscillazione tra la protezione, verso l'esterno, e la pericolosità, interna tra le quattro mura, rendono il maschio alfa potenziale danno e presenza energetica e salda in una elettricità, in un elastico a doppio filo che eccita e impaurisce, che esalta e incute rispetto, che attrae e allontana, che difende, preserva e ripara ma che non è addomesticabile. “Superuomini si nasce, grandi uomini si diventa” (Roberto Gervaso).alfa1
“Alfa” si inserisce perfettamente, e a pieno titolo, all'interno della stagione dedicata al “Genere” della Tenuta Dello Scompiglio, a pochi passi da Lucca (una riflessione sull'area teatrale tirrenica sul versante contemporaneo andrebbe fatta: oltre a Spam a Porcari, il Grattacielo e il Teatro delle Commedie a Livorno, il Sant'Andrea e i Sacchi di Sabbia a Pisa poco altro si muove sul litorale), in un contesto bucolico di vigne e fienili ma allo stesso tempo funzionale, attento ai passaggi, ai cambiamenti, che annusa l'aria di quel che sarà. Castello, qui regista e non coreografo, crea un ensemble di momenti, un mosaico di scatti nei quali emergono ad intermittenze luminose, quasi flash back nella memoria ancestrale, impressi nella nostra corteccia cerebrale, lampanti visioni su questo uomo chiamato ad assumersi responsabilità e a caricarsi sulle spalle il futuro e il domani del suo clan e della sua specie, in conflitto con un mondo circostante che lo vuole b(l)andire, boldrinianamente, dal ventaglio delle possibilità, eliminare dall'album di famiglia, estromettere perché ritenuto portatore di valori negativi, bollato come primordiale, non evoluto, pericoloso. “Il superuomo è il senso della terra” (Friedrich Nietsche).
Come ogni uomo alfa che si rispetti, questo nostro (Mariano Nieddu ha forza interpretativa impattante e quella catarsi che gli permette di calarsi totalmente, sempre convincente senza strafare mai: sicurezza e certezza), immerso in quest'aia colorata e solida di blocchi di cemento da periferia urbana, è attorniato dal suo harem, dalle sue groupie (Alessandra Moretti, Ilenia Romano, Francesca Zaccaria ai microfoni come coro da concerto) di compagne e amanti o dal gineceo familiare che vede in lui un punto di riferimento. Scudi di asfalto verticale, come posati a barriera, a difendere privilegi acquisiti ma anche argini valoriali dietro i quali nascondersi e ripararsi di fronte all'ondata di perbenismo manicheo che avanza, quasi una Stonehenge moderna, un abitacolo-ricettacolo delle peggiori ansie della pancia del Paese, accerchiati da lettere grondanti odio e razzismo, sesso e fascismo. In questo brodo primordiale, fatto anche di distruzione e prevaricazione, l'uomo alfa sperimenta e assorbe grazie alfa2anche al maschilismo delle donne che gli gravitano attorno e addosso che lo spingono a indossare i panni, a tratti consunti e già ampiamente sfruttati, dell'uomo forte, dell'uomo solo al comando, della punta dell'iceberg, del cavaliere senza macchia, del capitano coraggioso e temerario.
Il maschio alfa diviene quindi anche condizione non scelta ma assegnata, non volontà ma costrizione per “sopravvivere e moltiplicarsi”, “in competizione per l'immortalità”, “freccia che punta all'infinito”, “memoria imperitura”. È la Natura non la società pulita e asettica che vogliono costruire azzerando le differenze, appiattendo, a colpi di leggi ed emendamenti, milioni di anni di trasformazione, crescita, progresso, sviluppo, perfezionamento. In fondo siamo, anche, animali. Lo vogliono silenziare, mettere in un angolo, non dargli più voce in capitolo, mettere a tacere, alla porta, emarginarlo, metterlo alla catena come Melampo. Si stanno impegnando per mettere al bando e alla berlina peli e muscoli, per costruire, a tavolino, come in un laboratorio, un mondo senza linfa, senza nerbo, senza spina dorsale, senza ossatura né colonna vertebrale, impaurito e molle che frana al primo colpo di vento, che cede al primo colpo di Stato, acconsentendo passivo e prono. “L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso” (Friedrich Nietsche).
Se da una parte viene anche esaltata la sfera decisionale, dall'altra, come contraltare, l'alfa è tratteggiato e disegnato, meglio fotografato (come nella locandina della piece) e raffigurato come Ken, l'eterno ragazzo impostato di Barbie, belloccio ma finto, di plastica. Dopo tanto teatro omosessuale, con istanze (anche giuste) omosessuali e questioni omosessuali, problemi della comunità omosessuale e nudi e strusciamenti e ammiccamenti omosessuali, gay e lgbt (e qui potremmo fare un cospicuo e corposo elenco di esempi che dal palcoscenico scivolano spesso nel comizio), ecco un teatro eterosessuale. Che piaccia o meno il maschio alfa è necessario, imprescindibile. Chi ha paura del maschio alfa?

Tommaso Chimenti 06/12/2016

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