Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Campsirago: alla ricerca del vero noi

CAMPSIRAGO – Brianza felix? Il dubbio sorge spontaneo tra la pulizia delle strade che fa molto Svizzera (siamo ad un passo) e quel provincialismo che invece evoca la fabbrichetta di un tempo dorato ormai lontano. Il verde esonda dai lati delle strade e sembra volerselo fagocitare l'asfalto che in mezzo taglia questo colore potente, quasi aggressivo che si gonfia e travolge. Fioccano le zanzare tra i boschi rigogliosi che incutono rispetto. Zone di trekking, di ville e villette, di cancelli che si chiudono e cani abbaianti, di giardini curati ma vuote, di dondoli immobili, di altalene spostate impercettibilmente solo da aliti di vento. Per arrivare a Campsirago si passa da Arcore ed è sempre un colpo straniante vedere un luogo anonimo ma simbolo degli ultimi trent'anni della politica, della storia italiana. I cartelli che più si notano passeggiando per queste strade sono “Proprietà privata”, “Divieto di accesso”, “Attenti al cane”. Siamo in zona “Capitale umano”. C'è uno strano incastro tra l'opera dell'uomo, asfalto e cemento, e questa Natura selvaggia, che implode, prorompente, che gorgoglia e s'aggroviglia. Appena ti inerpichi un po' ci sono cascatelle e piccoli fiumi ma l'atmosfera non è bucolica, c'è un qualcosa di sottofondo che sfugge, una linea che non si riesce bene a tratteggiare, qualcosa che è lì ma non riesci completamente ad afferrare, a decodificare. E' la “Brianza velenosa” della quale parlava Lucio Battisti.

I grilli fanno da accompagnamento mentre senza Autan sei un uomo morto. Il grigio del bitume e questo verde abbondante che invade e assale, in perenne lotta con l'uomo. Siamo in zona di bresaola. Siamo in zona, purtroppo, di Covid, in un possibile triangolo tra Milano, Bergamo e appunto questo “ramo del Lago di Como”. Sopra i boschi, che sono cupi e neri e gonfi e folti e pesanti come scarponi nel fango, c'è un cielo che ha l'umore di femmina, repentino nel suo mutare tra sole battente e scrosci improvvisi. Quassù, da sedici anni, c'è una comunità che cammina, che va, che non si ferma, una tribù che si muove al ritmo lento della natura, che si inerpica per sentire e raccontare storie, per ascoltare e donare tempo, esperienze, momenti. Il simbolo dell'edizione di quest'anno de “Il Giardino delle Esperidi” (dal 27 giugno al 5 luglio) è, non a caso, una volpe con gli occhi spauriti e, allo stesso tempo, curiosi. L'ambiente, il territorio e l'ecologia qui vanno di pari passo, insieme, a braccetto, con la sperimentazione artistica, con il teatro, con il palcoscenico: inscindibili esigenze che a queste latitudini trovano la loro sponda, la loro ragion d'essere. Non ci può essere arte e bellezza senza il rispetto della Natura e degli altri esseri viventi.omini2-scaled.jpg

Dopotutto nella mitologia greca le Esperidi erano le custodi del giardino dei pomi d'oro di Era. I valori che qui regnano sono il silenzio, il rispetto di tutte le forme di vita, l'ascolto reciproco, le piccole cose, i piccoli numeri. La parola, abusata, “resilienza” a Campsirago (borgo in pietra del 1600 di trentasei anime a venti minuti di curve in salita dal primo centro abitato, dal quale, se non c'è foschia, si vede il Pirellone di Milano) non solo è doverosa ma anche centra in pieno l'obbiettivo. Tra “discese ardite e risalite” abbiamo potuto assaporare e assaggiare la linea contemporanea e quella intimista espressa dalla direzione attenta (alle persone, all'accoglienza, al contatto umano, al sentire) del direttore Michele Losi, la prima contenuta nella carica fervida, pungente e che sconquassa degli Omini, la seconda con due piccoli, e per pochissime persone, “attimi” estrapolati come un morso alla fretta del nostro tempo: prima “Hamlet Private” delle Scarlattine, uno a uno con il pretesto del Principe di Elsinor ma con l'intento di scavare nel proprio intimo, la seconda con la camminata-spettacolo “Alberi Maestri”, toccante, semplice, profonda, totale.

Gli Omini tornano ad uno dei loro spettacoli di successo, cavallo di battaglia del recente passato con una versione 2.0 della loro “Asta del santo” di una decina d'anni fa diventa, anche causa distanziamento sociale e pandemia, “La coppa del santo” dove l'interazione del pubblico non è più tattile, con le carte tipo Mercante in Fiera o con i soldi tipo Monopoli, ma è una partecipazione, sentita, rumorosa, di voce e pancia, di urla e canti, una gran bella festa per celebrare in allegria il ritorno al teatro, il ritorno in una sala teatrale. Le trentadue carte dei santi, tutti disegnati sulle fattezze di pesci apostolici, si sfidano fino a nominare la carta del Santo campione, ed ogni sera il vincitore è diverso perché è il pubblico che decide con la democrazia dei decibel che riesce a proiettare sul palco. Mentre Giulia Zacchini sta alla consolle (la compagnia adesso è di tre elementi), il sacerdote, Luca Zacchini, è un imbonitore, un presentatore che tenta di magnificare la mercanzia, mentre il sacrestano, Francesco Rotelli, canta, mette la musica, balla sul cubo ed è una spalla perfetta nell'innescare questo prete-battitore libero. Come un campionato del mondo dei beati, ci sono le fasi eliminatorie, Martiri contro Crocifissi o Santi di Strada contro Santi d'Aria, ed ogni spiegazione trova nelle pieghe del reale o del raccontato dalle Scritture quel germe di grottesco, d'assurdo che porta intelligenza felice e sarcasmo mai fine a se stesso. Di fondo la critica, nemmeno così velata, all'istituzione Chiesa e alle parabole comprese nei Vangeli, su Gesù oppure è scatenata nei confronti di Padre Pio, emerge pungente e acida. Nel mezzo può partire un brano di Marcella Bella come un ritmo sexy che il diacono balla sfrenato rimanendo in boxer, o Battisti, Tenco e Mia Martini per sottolineare San Remo. La Coppa finale è il Sacro Graal. Divertimento assicurato: lunga vita agli Omini.

Se è il pubblico, Hamlet.jpgla folla la forza della performance del gruppo pistoiese, in “Hamlet Private” si riscopre il calore di una conversazione a bassa voce, uno scoprirsi lentamente assieme alle carte, quasi un farsi fare le carte, quasi un solitario, quasi tarocchi. Un tavolino, che pare quello iconografico delle sedute spiritiche, in un incontro uno ad uno (uno spettatore e un performer), per evocare gli spiriti di Amleto (il padre) e i tanti che vivono, circolano, abitano dentro di noi e che mettiamo a tacere nella fretta delle cose da fare nelle nostre agende piene zeppe di eventi che sembrano inderogabili e irrinunciabili. C'è la colonna del nostro essere e quella del desiderio e nel mezzo tra le due quella del ponte per raggiungere da una l'altra. E' un gioco a pescare dentro di sé ricordi e traumi e, se uno ha voglia di raccontarsi, riuscire a tirare fuori, con un perfetto sconosciuto (in questo caso la sensibile ed empatica, accogliente, riflessiva ascoltatrice Giulietta De Bernardi), cose mai dette ad essere vivente. Una nenia in sottofondo ci tiene sospesi in un anfratto, parentesi del mondo reale; qui adesso viviamo nel sogno ma anche nel teatro e siamo noi gli attori, viviamo in Amleto ma non siamo certamente lui, viviamo i nostri ricordi, i nostri errori, ci analizziamo senza più scusanti, senza un pubblico al quale dare ragione o torto, senza alcun giudizio, senza salvezza né condanna eterna. Siamo uomini, siamo deboli e fragili, miseri e fallaci, sbagliati e terreni. Il nostro Caronte-croupier gira le carte, la fortuna e la sorte ci vengono incontro, ogni carta ha i suoi lati solari come quelli ombrosi e cupi, e la palla passa a noi se ci vogliamo confrontare su una materia ostina e complicata come noi stessi, tema nebuloso e doloroso. C'è chi esce dall'incontro cambiato, chi stravolto, chi ha pianto, chi si è commosso, certamente non se ne rimane neutrali, smuove, scuote, sposta, è un respiro che ci aiuta, che ci fa riflettere e pensare, è utile e necessario. “Hamlet Private” è il tarlo nel tavolo, sono le domande ricorrenti, sono le porte socchiuse che abbiamo paura di riaprire, sono le scelte non affrontate, è il timore di sbagliare, ma è anche la consapevolezza di chi siamo e di chi, con impegno siamo voluti diventare, è un cammino senza fine perché non conta la meta se non ti godi il viaggio.

Viaggio è anche quello, effettivo ed interiore, connesso agli “Alberi Maestri” (testi confortevoli ma non confortanti di Sofia Bolognini) esperienza commovente hamlet-private.jpge toccante che porta lo spettatore a sentire parti nascoste, a pensarsi in relazione alla Natura circostante, non più individualista ma parte di un tutto gigantesco, infinito come la vita sulla Terra. In questo mondo mercenario e mellifluo che ci vuol far credere che siamo unici e insostituibili “Alberi Maestri” ci riconduce, anche attraverso la fatica del cammino in salita, al nostro essere piccoli, microscopici pezzi di un puzzle miracoloso che ha sulle spalle milioni e milioni di anni e che noi rischiamo di compromettere, distruggere, annientare perché miopi che non riescono a guardare oltre la punta del loro naso. Un piccolo manipolo di persone seguono un Cicerone nel bosco, ognuno ha delle cuffie (come “The Walk” dei Cuocolo/Bosetti o “Walking Therapie” del Teatro di Rifredi) nelle quali va on air un racconto che ci parla di vita e di morte ma senza tanti fronzoli poetici, ci racconta della vita degli alberi, ci fa sentire soltanto il rumore dei nostri passi e il battito del nostro cuore che si mischia al ruscello, all'uccello, alle foglie secche, agli insetti che fanno il loro giro e se ne fregano del domani vivendo il loro presente. Evidentemente l'uomo si è perso qualcosa per strada, ha pensato di essere il più furbo dell'Universo, ha pensato di poter soggiogare tutto, controllare tutto. Gli alberi sono i custodi del bosco, e il bosco è ossigeno, e l'ossigeno è la vita, la nostra dipende dagli alberi ma continuiamo ad abbatterli. La guida (Michele Losi stesso con affabilità silente e mai invadente) ci fa guardare, per molti di noi è la prima volta, da vicino un albero, ci fa sentire la corteccia, toccare le sue rughe profonde. Non siamo ai livelli hippie di abbracciare i fusti e i rami. La narrazione che si spande è sul doppio binario tra il camminare, il muoversi e lo stare immobili, ovvero quello che noi crediamo che facciano gli alberi. Anche se essi si muovono eccome, in alto, orizzontalmente si espandono, crescono, affondano con le radici. Ma noi ciechi non ce ne accorgiamo: “Fa molto Alberi.jpgpiù rumore un albero che cade che mille che crescono”.

“Alberi Maestri” ci dice di prestare attenzione a tutto ciò che ci circonda, a non dare per scontato niente, a non essere arroganti con gli altri umani così come con le altre forme di vita che ci circondano, ti mette in relazione con l'intorno, ti fa sentire una parte del tutto, essere razionale in mezzo a tanti altri esseri razionali che meritano il tuo stesso rispetto. E' un ritorno alla semplicità, alle origini senza però rinnegare il nostro tempo e le sue conquiste, il progresso; non si tratta qui di abiurare la modernità. E' un piccolo pellegrinaggio che ti mette in contatto con te stesso, col chi sei, col chi c'è sotto la scorza di sovrastrutture e retaggi, sotto nozioni e futilità. Nel bosco, tra felci e ortiche, perdi il tuo status, il cognome, la professione, l'età: sei soltanto uno che cammina, che fa fatica per raggiungere un punto fuori da sé e anche, finalmente, raggiungersi, trovarsi. Il bosco è una soglia dalle apparizioni continue, dalle scoperte, dove un passo non è mai uguale all'altro, dove devi sempre essere vigile e attento, dove tutto scorre, si muove: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell'avere occhi nuovi”, diceva saggiamente Marcel Proust. Al mondo vegetale dedichiamo sempre troppo poco del nostro tempo. E non consideriamo le radici che si “parlano” e si accarezzano sotto terra, non consideriamo che gli alberi hanno quindici sensi e non cinque come noi poveri mortali, che gli alberi vivono centinaia o anche migliaia di anni, che possono rigenerarsi. Gli alberi non hanno fretta, non fanno corse, non sono in competizione, sono lenti ma tenaci: “Mi hanno sepolto, ma quello che non sapevano, è che io sono un seme”. Dovremmo imparare dagli alberi, a non avere gerarchie, a vivere in una democrazia orizzontale. E mentre cammini, affaticato e sudato, immerso in tutta questa vita, non controlli l'orologio, non ti chiedi “Ma quanto manca?!” ma finalmente vivi, senti, ti riconnetti alle tue particelle più profonde. Campsirago è un tocco all'anima, contro ogni ego, votato al noi rifuggendo l'io.

Tommaso Chimenti 05/07/2020

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM