NAPOLI – Anche se il mare non lo vedi, di sottofondo ti arriva sempre a prendere. Ti sposta, una carezza decisa, come un tirarti sottobraccio, amichevole e netto. Tutte le strade portano alla maestosità del Maschio Angioino che, anche con le gru che tentano invano di bloccarne la visuale, anche con gli infiniti lavori della metropolitana, se ne sta lì vedendoci passare piccoli, con gli occhi stretti davanti alle sue pietre brune, ai suoi merli, alle sue torri imponenti. Sui muri dei vicoli spuntano gatti francesi sorridenti disegnati con colori sgargianti che il tempo e il caldo hanno scolorito senza però perderne la felicità, la sornionità napoletana di sopravvivere alle incertezze, di fronteggiare le avversità, di tenere botta ai giorni, agli anni, alle difficoltà. E guardando in alto appaiono le sirene sovrappeso in zona Piazza Bellini dove le camionette dell'esercito se ne stanno davanti al grande murales che inneggia ad un celebre gruppo organizzato del tifo per il Napoli, come un Caravaggio tra la frutta in via dei Tribunali. I panni stesi sono un'installazione continua, a cielo aperto, tirare il naso all'insù è un esplodere di colori, di tele che svolazzano sopra la testa a creare un puzzle, un mosaico da portarsi dentro. E ancora il Mulino arrugginito in una traversa di via Toledo, donchisciottesco e decadente tra i palazzoni del centro, ci dice che qui l'Utopia vive e sopravvive, anche se le pale non sono funzionanti, anche se sembra aver perso il suo smalto, ma resiste “in faccia ai maligni e ai superbi” direbbe un De Gregori circense. E poi c'è il Colapesce ritratto, testa di pesce e corpo da Re con tanto di tridente in mano e le regole di vita vergate sul bandone di un bar in zona Università che sarebbero da imparare, seguire, ripassare ogni giorno della propria esistenza. Napoli è un respiro, a volte è un fritto, a volte uno sbuffo delle televisioni sempre accese i cui colori smodati escono aggressivi dai bassi, ora è una sirena, adesso uno sbattere d'ali di piccioni. Se Napoli è già un teatro a scena aperta, il “Campania Teatro Festival” (budget 4 milioni e mezzo) è teatro nel teatro, esaltazione del teatro, anche se il suo fondale, da qualche anno, è confinato nel bellissimo polmone verde che guarda la città dall'alto, tra le palme e i due palchi organizzati alla Reggia di Capodimonte. Sopra nel cielo, sembrano rincorrersi gli strepiti dei gabbiani che urlano al tramonto la loro voglia di vita o la loro paura delle tenebre, e gli aerei che, incuranti degli uomini così piccoli là sotto, sferragliano con le loro tonnellate, con i loro fumi come siluri tra le nuvole arrivando e ripartendo da Capodichino con le loro lucine accese a lasciare una scia fosforescente e ipnotica nell'azzurro sopra le nostre teste rapite.
E' stato un soffio potente, leggero e profondo, quello che ha aperto questa edizione del festival diretto da Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi, da considerare più per il percorso esistenziale ed emozionale che dal punto di vista artistico. Quale personaggio migliore di “Amleto” per raffigurare un giovane in balia del Sistema, tra le gabbie della sua fortezza, vera o presunta, chiuso tra quelle pareti a chiedere giustizia e verità, a voler mettere in atto la sua vendetta? E' un Amleto particolare questo portato sul palco dai ragazzi del carcere minorile di Airola e dalle studentesse dell'Istituto I.S.A.M. de' Liguori di Sant'Agata de' Goti. Schegge di Amleto, sprazzi di Shakespeare, spunti secolari, lampi che toccano, hanno toccato e toccheranno tutti gli uomini prima e dopo di noi. Il classico che s'infarcisce di oggi, le parole del Bardo, con piccole dosi di ironia funzionano, intervallate dalla contemporaneità che bussa alle porte, irrompe sulla scena senza chiedere permesso. I ragazzi entrano in nero sul boccascena, hanno dei bastoni in mano per battere il tempo. Airola che prende le fattezze di Elsinor, con una prigionia che si fa fisica e mentale, reale e psicologica. Amleto diventa Amlè, Ofelia è Ofè. Spunta anche un cantante neomelodico, ma quello che più ci ha colpito, e che ha dato un valore più alto e tangibile all'operazione, sono stati gli inserti hip hop (il maestro è stato il cantante Lucariello) con alcune canzoni-sfogo che hanno squarciato la quarta parete, pur nell'oggettiva incomprensibilità (per i non napoletani) ma con una potenza di fuoco ruvida, una voce che arrivava a toccare corde lontane, distanti dal buonismo e senza lamentazioni, tasti perduti dentro il cuore e la pancia del pubblico. In quelle parole così piene e rudi, così gracchianti e graffianti, così sentite e vere, sta il nocciolo e il centro e il fulcro di questo “Amleto Principe di Airola” (il presentatore è quello che meglio reggeva i tempi e i ritmi, dovrebbe continuare a fare teatro), improvvisazioni su basi dai bassi potenti. E in ogni rima sembrava di rivedere alcune vite segnate, alcuni destini tranciati troppo presto. Ma il teatro è una risorsa, è una via di fuga, può essere una finestra oggi per guardare fuori dalle sbarre, domani per immaginare per se stessi un futuro (anche se non intrapreso a livello professionale) non penalizzato, un avvenire da riempire di cose positive. Ecco “Mammà”: “Come eri bella quando mi capivi, Sei sempre pronta a prenderti questo male, Come eri bella quando mi guardavi e con il sorriso mi dicevi tutto. Fermerei il tempo tra le tue braccia, Un’ora a settimana non mi basta mai, Mamma ti chiedo scusa in questa canzone che tra quattro mura sto scrivendo. Ogni pensiero mi parla di te che mi difendi anche se ho sbagliato, Siamo lontani ma sei sempre presente, Sei un pensiero fisso nella mia mente. Mamma ti regalerei la mia vita, Perché tu stai pagando i miei sbagli e non lo meriti, ti voglio bene. Tutti i pensieri mi parlano di te, Porti la croce per questo figlio tuo e ora mamma tu non ci sei, Ma questa condanna deve finire”. Il teatro, e la musica, come voglia di rinascita, rivincita, rivalsa. Ma, ed è qui che la storia cambia, e deve necessariamente cambiare per interrompere la catena di errori, il nostro Amleto quando ha la possibilità di vendicarsi, con la spada in pugno, fa un passo indietro e non cade nella trappola della vendetta che uccide sia l'ucciso sia l'uccisore. E' questo l'insegnamento più grande, uscire dalle regole tribali, dall'occhio per occhio e dente per dente, il riuscire a razionalizzare senza farsi muovere dall'istinto primordiale delle belve feroci. E poi arriva “Guagliune sfurtunat” che racconta di solitudine ed emarginazione, di lontananza, della scuola che non riesce a colmare il divario tra le possibilità delle varie classi sociali: “Ricordo quando andavo a scuola, Lo ricordo come se fosse adesso, ricordo che tutti ridevano perché avevo le scarpe bucate. Nel banchetto ero sempre solo, all’inizio non capivo il perché, Non si avvicinava nessuno, si sentivano diversi da me. Non avevo una maglietta come loro. Non avevo un paio di scarpe buone ma mi accontentavo di quelle che poteva permettersi mia madre che ogni giorno mi donava il suo cuore. Tutti si riunivano in gruppi, Io sempre solo come un lupo. Sono cresciuto sempre da solo”. La bellezza forse non salverà il mondo ma l'arte può sicuramente innescare il cambiamento.
E' una lettera aperta, scritta ancora con il cuore frantumato, con delicatezza, ma senza sdolcinature, una missiva mai consegnata scritta con il sangue della memoria, con la linfa del ricordo, quella che Lina Sastri (una delle ultime signore del teatro) ha portato in scena ne “La Mancanza” (prod. Salina) per il fratello scomparso. Non è solo una morte questa ma un accanimento che alcune esistenze attuano: nel 2013 un'emorragia cerebrale seguita, dopo riabilitazione, dalla scoperta di un cancro nel '17 ed infine ad inizio '21 il Covid che ha posto fine agli ultimi otto anni di calvario, di martirio, di dolore e tragedia. Quindi non è la morte il sentimento e la situazione che affronta la Sastri ma questo lento scivolare verso la fine, lunga e travagliata altalena tra difficoltose e tortuose riprese fisiche e interiori e la nuova mannaia calata a troncare sogni e aspettative di ripresa. Come stare sulle montagne russe, dentro e fuori l'ospedale con la speranza ogni volta da riattivare, i risvegli e le ricadute, gli slanci e le depressioni, il nuovo entusiasmo ritrovato e continue delusioni. Una tragedia personale nella quale, con dolcezza e pudore, ci conduce l'attrice che ci apre le porte dei suoi diari, delle sue note, dei suoi bloc-notes pieni di appunti, di considerazioni dove tratteggia, con grande umanità, la tenacia e la tenerezza, l'impotenza come il perdono. Ricordare è portare nuovamente al cuore. Un percorso dentro la mancanza, un girovagare in mezzo alle parole per trovare un senso all'assenza, l'autopsia di un sentimento, con lucidità ma senza fredda razionalità, anzi con passione e forza, mettendo in campo tutta la fragilità e il coraggio. “La mancanza” è un taglio di Lucio Fontana sulla pelle, è un guardare dentro la ferita e provare una vertigine, è vedere la carne viva, è una lezione di vita che ci dice che anche di fronte all'ineluttabile, all'incertezza del presente, quando si è immersi nella sofferenza e nella solitudine di tenere dritta e viva la barra della coscienza, dell'integrità anche quando tutto attorno a noi ci direbbe di mollare, di lasciarsi andare, di cadere in quello stesso vortice e baratro. La morte delle persone che ci stanno a fianco è un peso insopportabile (“Sono morta un po' anch'io”) che, forse, solo la rielaborazione, che non può essere consolatoria, attraverso le parole e la scrittura e quella terapia condivisa e collettiva chiamata teatro, può leggermente scalfire e lenire. L'Arte ci dice che non siamo soli.
Visti a Napoli il 10 giugno 2022.
Tommaso Chimenti 14/06/2022