VENEZIA – Sono tanti quarantaquattro anni. Il mondo del '77 e quello del 2021 sono profondamente dissimili e non staremo certo qui ad elencare gli infiniti perché. La necessità di destrutturazione del linguaggio sulla scena di fine anni '70 (da noi c'erano Carmelo Bene e Leo de Berardinis) forse non può essere esportata (sembra un capriccio, un vezzo) ai giorni nostri quando tutto l'intorno e l'immaginario, le frequenze emotive, le capacità empatiche della società, la funzione stessa del teatro, sono completamente mutati. E invece ci siamo trovati davanti a “I was sitting on my patio this guy appeared I throught I was hallucinating” di Bob Wilson (al Teatro Goldoni veneziano; prod Theatre de la Ville Paris, Dance Reflections, Edm e Teatro Stabile del Veneto) come ci si interfaccia ad un documentario sui dinosauri, con la curiosità certo, ma anche con la convinzione, dopo che erano passati alcuni minuti e la situazione si stava facendo pericolosamente reiterata e ridondante, e che così sarebbe andata avanti per un'ora e venti, che quel mondo ci era lontanissimo, anzi stava lottando per sopravvivere non con noi ma contro di noi, volendo dimostrare qualcosa (a chi?) che non aveva più ragione d'essere né di esistere. Un ultimo colpo di coda di quello che, mezzo secolo fa, poteva essere considerato avanguardia e che adesso è soltanto preistoria polverosa.
Ma si sa, il tempo passa e tutto appiattisce e usura e non è detto che sia sempre una medicina valida riesumare i cadaveri, pur se altisonanti. Alcuni di questi “corpi” ci parlano ancora e assurgono allo status di classici, altri dovrebbero rimanere nelle teche, ben chiusi, conservati, da studiare, ma non da riportare in vita. Si sente proprio la pesantezza degli anni trascorsi, delle vicende che hanno profondamente trasformato la società, così come il teatro, la scena, la visione, le attese della platea. Degli spettacoli di Bob Wilson, banale a dirsi, salviamo ovviamente le luci nette, pulite, le linee geometriche, la coerenza dei chiaroscuri, il rigore formale eccezionale. E i suoi interpreti, stavolta Christopher Nell e Julie Shanahan, impeccabili, dai movimenti sincopati e contratti, contenuti, impomatati, inappuntabili, fumettistici, lui un mix tra Petrolini e Penguin di Batman, lei tra Milva e Ute Lemper. Nota dolente il testo che si sviluppa in due fasi che non dialogano assolutamente tra loro, anzi lavorano a specchio, a distanza; una prima parte dove il testo (abbiamo trovato delle assonanze agli ultimi lavori visti firmati da Christoph Marthaler, proprio nella negazione della drammaturgia assoggettata a suono, a musicalità, a tappeto di fondo) viene enunciato sia dall'eco di una cornetta del telefono (“Se telefonando io potessi dirti addio ti chiamerei” ci viene in soccorso Mina; un drin persistente e costante, aggressivamente insistente e imperterrito che ha “deliziato” la platea per mezz'ora prima dell'inizio della piece come un mantra fastidioso, come goccia cinese martellante e snervante) sia, di rimando, dallo stesso performer (in nero).
Dopo aver ascoltato per due volte (dall'attore e dalla cornetta in un dialogo raddoppiato: ricordate “Piange il telefono” di Domenico Modugno?) queste frasi sciorinate senza nessun nesso logico, nella seconda parte è stato il turno dell'attrice (in bianco) impegnata nella nuova riproposizione di quelle sillabe buttate, queste perifrasi che hanno lasciato, in entrambe le messinscena, allibiti e interdetti, allucinati (come il titolo ci suggeriva amorevolmente), sbigottiti e irrequieti gli spettatori visibilmente insoddisfatti, delusi e addormentati (che lo hanno subito passivamente e senza difesa alcuna). Nessun dialogo tra sala e scena, nessuna mano tesa, nessun aggancio o appiglio, soltanto molta forma svuotata di alcun significato plausibile, di alcun senso credibile. Le luci non ci sono bastate né le indiscutibili prove attoriali superlative cariche di fascino e bellezza. Abbiamo sentito un grande freddo emotivo nel tentativo di lasciarci scorrere addosso tutto questo non-sense, questo incubo visionario, questo abbaglio carico di amarezza. Certi fantasmi è meglio lasciarli ai libri, alle note a piè di pagina, senza sentire la necessità di restituirli ai nostri giorni, ai contemporanei.
Tommaso Chimenti 12/11/2021