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“Benvenuti nella casa chiusa dell’arte”: a Cinecittà "Dignità autonome di prostituzione"

E’ un’estate (t)orrida a Roma, un’estate di mondi di sotto all’ombra del Campidoglio, di disservizi, di chiusure. Roma città chiusa: chiusa negli immobilismi politici, chiusa nelle lagne cittadine, chiusa come i suoi spazi culturali.
Nell’ultima annata, l’escalation di serrande abbassate - che dal Teatro Valle (riapre, non riapre, riapre, non riapre...) ai tanti spazi occupati, passando per il Teatro Tor Bella Monaca fino al Teatro Due – è stata inarrestabile.
Ecco lo scenario in cui “Dignità autonome di prostituzione” – un format teatrale ideato otto anni fa da Luciano Melchionna – si incastra alla perfezione, come una conseguenza, come una risposta diretta.
Lo spettacolo è un’opera corale, dove ogni genere di performance attoriale trova la sua espressione: coreografie e canzoni, monologhi e recitazione d’insieme. Ciò che rende lo spettacolo sempre nuovo, oltre alla rotazione degli attori, è l’ambientazione: fino al primo di agosto la carovana di circa cinquanta mestieranti del lavoro più antico del mondo è a Cinecittà – altro luogo dell’arte moribondo – che almeno per qualche tempo ritorna a pulsare di un luccicchio a metà strada tra suggestioni felliniane e variazioni alla Moulin Rouge.
Attori come puttane, ma senza frustrazione: la compagnia di questo circo dell’arte svenduta è pronta a trattare sul prezzo delle performance direttamente con il cliente-spettatore, ma solo dopo aver consumato i preliminari sotto il tendone in cui un’italietta isterica e sfatta dai luoghi comuni viene colpita dal rigurgito della carne attoriale in bella mostra .
La scelta della escort della recitazione avviene su consiglio diretto delle maitresse addestrate dal “pappone-papi Melchionna” (ogni riferimento a politici esistenti non è affatto casuale).
Così, capita di ritrovarsi appartati negli spazi aperti di Cinecittà con Lia (Luciano Giugliano), un “frocio” ninfomane che scopre l’amore dopo averlo perduto, come a testimoniare che eterosessuali e omosessuali commettono esattamente gli stessi umanissimi errori; si gode con Wanda (Clio Evans) – la pupa del papi – che trasforma la sua vocetta stridula, nell’urlo mannaro della violenza che esplode sotto un cielo avido di fortune; e ancora – dentro gli uffici amministrativi di cinecittà maleodoranti di ipocrisia– c’è l’amplesso di rabbia del diversamente diverso (Joele Anastasi), di un’esistenza spossata dai piagnistei e dall’inerzia che avvolge l’umanità, come una ragnatela che soffoca ogni sussulto di vita, d’amore.
Così, deviati nello spirito dai “servizietti” degli attori, si ritorna nel tendone per la festa finale: una festa del palcoscenico, un “play-pride”, un arcobaleno di musicanti e performer, giocolieri e buffoni, tutti schierati a difesa della propria dignità, prima ancora che di artista, di esseri umani.
E allora pazienza se la durata è da kolossal teatrale, pazienza se forse gli attori risultano più forti dei loro stessi monologhi – inevitabilmente a tratti retorici – e pazienza se in una sera non si riesce ad “andar con tutti”, perché questa è la festa dell’arte che si fa metafora dei precari, lo spettacolo degli spettacoli, la denuncia travestita da party.
In fondo a Roma – e non solo – c’è bisogno anche di questo: sussulti di bellezza che denuncino il brutto, costruendo qualcosa, senza lagnarsi. Per le lagne sul meteo, sui disservizi, sulla politica c’è sempre tempo; per salvare il teatro, per ricordarne la necessità il tempo è ora.

Adriano Sgobba 24/07/2015

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