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“Barabba” imprigionato in una torre piena di scale che non portano da nessuna parte

BOLOGNA – Ci sono dei casi nei quali una scena trova un'assonanza perfetta, come un abito cucito su misura, con una drammaturgia, quando un solo gigantesco oggetto feticcio diventa contenuto e contenitore delle parole, di un testo e lì dentro, abitandolo, quelle stesse sillabe riescono finalmente felicemente ad esplodere e trovano la loro casa e aspirazione e ambizione e sponda, riverbero ed eco, un loro senso alto e intimo, semplice e lineare, volando, ampliandosi. Davanti a questa Torre di Babele (ma anche torre di Kiefer) per salire verso un Dio che invece vuole affossarci perché non ci ha compresi, piena di tubi innocenti (ossimoro in mezzo ai colpevoli miserabili), fatta di scale, tra Escher e De Chirico, per salire la discesa agli Inferi, il testo di Antonio Tarantino (quanto manca al teatro italiano!) “Barabba” (prod. Teatri di Bari; visto nel bellissimo spazio dei Teatri di Vita) si fa allo stesso tempo carne e materico ma anche metaforico, potente di sudore e sfaccettato, BARABBA-40.pngcolorato, profondamente terreno, tattile, conturbante. Come lo è il suo attore in scena, Michele Schiano di Cola che non ha paura di “sporcarsi” usando e mostrando il suo corpo, mettendolo a disposizione senza freni, incarnando queste frasi come tagli, come ferite, come tatuaggi. Parole che rimandano al fetente, allo schifo, ai bassifondi, alle miserie umane, al tanfo della vita, al maleodorante dell'esistenza dentro queste impalcature (con le luci di Vincent Longuemare sembra un San Sebastiano trafitto da lance e frecce) che lo serrano, lo chiudono claustrofobicamente, senza respiro, angoscioso.
Siamo la notte prima della sentenza capitale per questo dead man walking che travalica le epoche, condannato senza tempo, che aspetta la sua pena ingiusta, o quanto meno sproporzionata rispetto al danno. E' uno sfogo quello del nostro Barabba, nostro perché ci appartiene, perché Barabba siamo tutti noi, peccatori, “poveri Cristi in croce”, gorilla tra le sbarre, belva allo zoo, costipato, costretto, imprigionato, imbavagliato dentro una situazione più grande di lui, dentro questa vita che non riusciamo a gestire, comprendere, capire fino in fondo cercando spiegazioni fragili. Schiano di Cola (insieme alla regista Teresa Ludovico) ha fatto suo questo testo, emblema della scrittura tarantiniana, immaginifico, che ha molti snodi e camere segrete, pertugi e labirinti dove spaziare, nei quali sembra di perdersi per poi riaffiorare, riemergere in un'armonia musicale che non culla ma che è dolente, dolorosa, tragica. Al tempo stesso, ad esempio, l'uso dei vari dialetti regionali nostrani (riconosciamo un BARABBA-44.pngBerlusconi come l'italiano argentinizzato di Bergoglio a tratti wojtylizzato, ora Totò fino a Mussolini), dona alla narrazione quel colore, e quel candore immondo, quotidiano, di strada, vicino alla realtà che viviamo nei nostri quartieri, tra le strade e le piazze.
Un testo per gli ultimi (accompagnato dalle impressioni e variazioni musicali sciorinate in un ventaglio tra Terje Isungset e la Passione di Cristo, la Marcia lugubre e le “Triadic memories” di Morton Feldman fino a Leonard Cohen), una riflessione amara sulla detenzione, il BARABBA-68.pngcarcere, la prigione che diventa gancio (come sempre in Tarantino lo zoom sul tangibile si fa prospettiva sull'immateriale) per aprire le fauci del pensiero (e spiazzarci), inglobare nuove considerazioni e ragionamenti più grandi, più alti. Schiano di Cola (sarà nel prossimo “L'arte della commedia” da Eduardo di Fausto Russo Alesi), in una prova d'attore di sostanza, faticosa, impervia che lo porta al limite, bloccato e sbarrato e sensazionale e scandaloso, ha la forza verbale di surfare sulle rime, come di lanciarsi in un vibrante hip hop rappato con estrema energia, rara potenza, prestanza d'impatto, vigoria vitale esuberante, robustezza dinamica (ci ha ricordato Francesco Di Leva ma anche per intensità viscerale e gutturale Zulu, frontman dei 99 Posse).
“Barabba” è una giostra che ci mostra i nostri limiti, nella rabbia delle nostre periferie sensoriali, nelle borgate della nostra coscienza gravida di angosce, nella paura di metterci in contatto con la nostra parte più deturpata, contaminata, infamata e proprio per questo delicata e frangibile. “Barabba” è il “Prometeo incatenato”, è un grido logorante d'allarme, è un urlo pesante d'aiuto che lo avvicina al beckettiano “Aspettando Godot”, senza redenzione, senza salvezza, senza fine.

Tommaso Chimenti 27/01/2023

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