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“Aspettiamo cinque anni” di García Lorca al Teatro dei Dioscuri di Roma

Proseguono le messinscene degli allievi registi e attori dell’Accademia Silvio d’Amico di Roma presso il Teatro dei Dioscuri al Quirinale: dopo “Nozze di Sangue” di Federico García Lorca per la regia di Danilo Capezzani è la volta di “Aspettiamo cinque anni”, pièce surrealista del drammaturgo e poeta andaluso composta tra il 1930 e il 1931, messa in scena dall’allieva regista del III anno Caterina Dazzi, a cui seguirà “Yerma” il 20 e 21 dicembre per la regia di Federico Orsetti. La scelta di mettere insieme tre studi sul drammaturgo spagnolo non è affatto scontata: le sue opere, pur molto amate nel passato, sono oggi raramente rappresentate. Gli allievi sono stati seguiti nella preparazione dal maestro Arturo Cirillo, che afferma: «Un ritorno di Lorca attraverso la riflessione, lo studio e soprattutto la messa in scena di tre dei suoi testi da parte dei giovani registi dell’Accademia mi sembra importante, e mi procura una certa curiosità».

Nella pièce portata in scena da Caterina Dazzi, il Giovane protagonista ama la Fidanzata, ma vuole sposarla dopo cinque anni, senza motivare la sua scelta. Alla fine dell’attesa, però, la trova innamorata di un giocatore di rugby, e avrà intanto trascurato l’amore di una Dattilografa. Quando si rivolgerà a lei, compreso l’errore, sarà troppo tardi. Il tema dell’attesa, del tempo, è evidente sin dal sottotitolo dell’opera, “Allegoria del tempo”, e altri dei temi fondamentali dell’opera di Lorca sono qui presenti: il ricordo, i figli – nati e non –, vere ossessioni dell’autore, rappresentati attraverso un’umanità dolente, l’idea – non troppo lontana da noi – del corpo femminile inteso come merce di scambio su cui si proiettano le frustrazioni maschili. Il testo di Lorca, assai poetico e simbolico, tanto da risultare di non facile comprensione in più momenti, ha comunque al centro il tema dell’amore, almeno idealmente accresciuto dall’attesa: «com’è bello aspettare con certezza il momento di essere amati» afferma la Dattilografa. Ma l’attesa, qui, è delusa, se è vero che l’amore del Giovane per la Fidanzata risulta non corrisposto alla fine dei 5 anni, e se lui stesso avrà modo di dirle: «Tu non significhi nulla, è il mio amore senza oggetto», ovvero la sola idea che aveva di lei, tanto che riuscirà a dirle addio senza particolari indugi o sofferenze. L’idea, poi, è addirittura ribaltata nel finale, in cui il protagonista afferma che «non si deve mai aspettare».

Ad una buona performance dei giovani attori dell’Accademia Silvio d’Amico, si aggiunge qui un’interessante messinscena pensata dalla regista, che elimina le quinte teatrali – i personaggi si cambiano d’abito in fondo al palco – e realizza una divisione verticale dello spazio su più livelli: un piano superiore ottenuto tramite una struttura in legno e uno inferiore dato dal sottopalco, che diventa nel finale spazio scenico.

Pasquale Pota 19-12-2018

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