MODENA – La riflessione comune ogni volta che va in scena un nuovo adattamento di un testo beckettiano, vista la fissità e l'intoccabilità del testo, sta nel saper giocare (dalla parola “play”) con la scena e con le sonorità uscendo dal naturalistico come dal didascalico. Sta di fatto che con due tocchi da Maestro qual è, il grande regista greco Theodoros Terzopoulos, è arrivato a incontrare fino in fondo la tragedia umana presente dentro l'“Aspettando Godot” (prod. Fond. Ert, Fond. Teatro Bellini), ha scavato l'abisso che ci portiamo dentro, ha scalato le vette della nostra esistenza. La scena è assolutista ed essenziale, colma e onnivora, sembra statica ma prende vita, è viva e non vegeta, si muove, crea nuovi ornamenti e origami da riempire e abitare. Una grande scatola nera (ci ha ricordato il grande cubo della Ka'ba all'interno della Sacra Moschea a La Mecca, l'edificio più importante per tutto l'Islam) che lievemente si apre formando una croce di luce sottilissima al centro, finissima ed elegante, una linea pura e pulitissima, un quadrato che si scioglie in altri quattro quadranti per formare geometrie e incastri, tetris e agganci dove il buio e la luce si inseguono in maniera così religiosa e sublime. Già, il religioso. I due pannelli posti superiormente si staccano formando una sorta di schermo 16:9, un rettangolo allungato centrale, una teca da esposizione (ma anche teatrino per burattini) che somiglia moltissimo ad un tumulo, una tomba, una bara; è lì che, distesi, stanno Vladimiro ed Estragone, ed è lì che recitano, anche in posizione fetale (la morte si ricongiunge alla nascita) Stefano Randisi ed Enzo Vetrano che, veri atleti del palco, interpretano sdraiati i due personaggi topos.
L'albero feticcio di “Aspettando”, il salice ovviamente piangente, qui si è trasformato, o meglio lilliputzianamente travestito e ridotto a bonsai miniaturizzato. Qui non c'è più cognizione del tempo e anche le risate forzate tendono a farci cadere nel vortice di questa sospensione che aggroviglia, ci prende alla bocca dello stomaco come groppo, nell'impotenza più assoluta, in questo niente nel quale annaspiamo e del quale facilmente (non felicemente) diventiamo naufraghi perduti a nuotare in questo mare ostile e irto di parole senza costrutto che non portano ad alcuna salvezza, a nessuna isola, a nessuna boa di respiro. Quest'ansia di qualcosa di positivo che debba arrivare a risollevare il presente e la realtà si scontra sempre con l'impossibilità, con la negligenza, con l'irraggiungibilità di qualcosa che è lì ad un passo, che forse lo puoi pure scorgere o sfiorare da lontano ma che rimane precluso miraggio, inavvicinabile oasi, intoccabile chimera. Per Vetrano e Randisi un'altra prova con i fiocchi, sembra che il testo sia loro, sia stato scritto per loro, per la loro storia e autobiografia, e gli esplode tra le mani e diventa pieno, vivo, con strati di verità, in continui rimandi tra l'arte, la letteratura e il teatro e la vita vissuta compenetrandosi, alimentandosi, pompandosi a vicenda. Anche Pozzo e Lucky non sono da meno: Paolo Musio e Giulio Germano Cervi sono coesi, partecipi e coerenti nel superlativo progetto.
Parlavamo del suono: la tensione scenica creata prima da un tango struggente e poi da arie celestiali cristiane creano una drammaturgia nella drammaturgia sottolineando, aggiungendo non solo enfasi ma anche una punteggiatura interiore di scansioni ritmiche, riempiendo le crepe di lamenti, argomentando quadri, ripulendo nello struggimento, centellinando il patema, esaltando. La struttura monolitica si fa labirinto e ascensore, si apre come finestre, crea altre e nuove croci, si chiude come conchiglia di ostrica, l'impianto li mangia, li inghiotte, li fagocita e poi li risputa. Quando si apre invece sembra che si divida in due clessidre, e il tempo in “Aspettando Godot” è il fondamentale convitato di pietra, un tempo muto e invisibile, invivibile, inquietante e imprevedibile nella sua prevedibilità. Aspettare Godot non porta alla redenzione, qui è solo il Giudizio Universale che rimanda, questa è la pena e la punizione divina, il suo abbattersi, protraendo questa infelicità cupe e solida difficile da masticare, questo immobilismo tragico che impantana senza memoria, chiedendo aiuto inascoltati. “Il tempo non passa per niente e siamo costretti a ucciderlo con l'inganno”, “Non so se sono infelice”, “Ho sognato di essere felice” fino al più devastante affresco della condizione umana traballante e incerta: “Le madri partoriscono a cavallo di una tomba aperta”. Anche “L'Origine del Mondo” di Courbet adesso prende tutto un altro significato. Di amara sconfitta.
Tommaso Chimenti 16/01/2022
Foto: Luca Del Pia