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“Aspettando Godot”: l’attualità del capolavoro di Beckett rivive attraverso la regia di Alessandro Averone

Nell’atmosfera evanescente di un luogo indefinito e di un tempo indeterminato, si assiste alla tragicommedia dell’attesa per eccellenza, il capolavoro di Beckett ”Aspettando Godot”, con la regia di Alessandro Averone, il quale lo riveste di una delicata e sottile sensibilità poetica.
Ai piedi di un albero, un salice piangente, in una deserta campagna, i due protagonisti, Estragone e Vladimiro, inseparabili, aspettano Godot. Neanche loro sanno precisamente chi sia, ma, immobili, lo attendono, e cullati dalla speranza di questo arrivo, si sforzano di trovare un senso al loro esistere, al loro vivere e al loro vagare su questa terra. Si scambiano battute e pensieri che esprimono , talvolta attraverso risate pungenti, la complessa condizione esistenziale. Condividono la loro quotidianità, fin quando non irrompe sulla scena una coppia di viandanti: Pozzo, un proprietario terriero, con al guinzaglio il suo servo Lucky. Sono come attori bisognosi dell’acclamazione e del consenso del pubblico, che trovano personificato proprio da Estragone e Vladimiro, i quali sono affascinati dal modo di essere dei nuovi arrivati. E’ come se i due vi si aggrappassero per provare a sopravvivere e dare una risposta ai loro interrogativi. Risposte che purtroppo non ci sono, come dimostra l’intenso, insensato ed erudito monologo di Lucky. Il servo e il suo padrone riprendono allora il loro cammino, mentre il giorno sta per volgere al termine. Di Godot ancora nessuna traccia. Arriva però un suo messaggero, il quale annuncia che per questa sera il misterioso uomo non si presenterà , ma sicuramente verrà domani.
Al calare della notte, a Estragone e Vladimiro non resta che attendere ancora , animati dalla forte speranza che il giorno successivo sarà quello giusto e che finalmente potranno incontrare Godot. Ecco allora il cadere della notte e il sorgere di una nuova giornata in cui tutto è perennemente uguale, oppure tutto completamente diverso. In una sorta di limbo in cui ogni cosa è vaga, in cui il passato e il presente si compenetrano vicendevolmente fino a divenire un non tempo e un non luogo in cui i vuoti di memoria si uniscono a labili ricordi, i due tentano ancora una volta di riempire il loro spazio esistenziale con parole, gesti, azioni, riflessioni.
Tutto è immobile, fermo, cristallizzato, o forse no. D’altronde non ci si può bagnare due volte nelle acque dello stesso fiume, niente è identico al giorno precedente: l’albero spoglio ora ha le foglie, le scarpe non sono più grigie, Pozzo e Lucky, sono uguali, eppure ora uno è cieco, l’altro è muto. Nella perpetua stasi dell’esistenza ogni cosa è impercettibilmente diversa, compreso il messaggero di Godot, che ancora una volta torna a ribadire che il suo padrone non verrà , ma lo farà certamente domani. Ci si prepara così ad una nuova notte che precede un nuovo vecchio giorno, in cui Estragone e Vladimiro si lasceranno ancora una volta trasportare dalla speranza di incontrare Godot.
Nel suo entusiasmante allestimento, Alessandro Averone rimane fedele al classico di Beckett, aggiungendovi un tocco di profonda sensibilità e delicata poesia, e animandolo di una forte attualità. I personaggi e la loro precaria condizione esistenziale sono specchio della società attuale e della nostra incessante incertezza, del continuo bisogno di trovare un senso al nostro vivere e al nostro essere nel mondo. Vladimiro ed Estragone siamo tutti noi che aspettiamo un dio, un gesto, una parola che si faccia verbo, un percorso, una destinazione che colmi il mistero del nostro esistere. Il capolavoro del teatro dell’assurdo si riscopre così fortemente attuale, e il regista lo illumina anche di un profondo barlume di speranza, un dolcissimo messaggio di salvezza, rappresentato proprio dal messaggero di Godot, interpretato in questo caso da un bambino, il bravissimo Francesco Tintis, simbolo di una nuova generazione, di un nuovo futuro, che potrà sopravvivere all’incertezza dei nostri tempi attraverso la veridicità dei sentimenti e la profondità degli affetti.
Tra giochi di parole, riflessioni filosofeggianti, assordanti silenzi , toccanti monologhi, i due atti in cui nulla accade e nulla cambia, nell’immobilità di uno spazio atemporale, tutto acquista un profondo e commuovente significato grazie al magistrale lavoro interpretativo degli attori che, legati tra loro da una particolare magica alchimia, riescono a far sorridere, riflettere ed emozionare il pubblico, senza mai esagerare, rimanendo continuamente in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, gioco e pensiero, poesia e razionalità, uniti, immobili, stetti tra loro, in bilico in una vita nata a cavallo di una tomba, in cui il giorno splende in un istante, ed è subito notte, sempre aspettando Godot.

Maresa Palmacci 28/02/2016

Foto: Manuela Giusto

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