PRATO – Il rischio c'era ed è stato calcolato. Sembra però, subito fin dalle prime battute e dalle prime psichedeliche e coloratissime e curatissime scene, che il patchwork sia stato ardito, il mosaico altrettanto forzato, l'incastro pericoloso. La pellicola del '66 di Age e Scarpelli portata sul grande schermo da Monicelli e questa regia di Roberto Latini (prod. Metastasio + ERT) fin dall'apertura del sipario appaiono mondi infinitamente lontani per poter essere messi sullo stesso piatto a dialogare. Certo agganci possibili, tra quel Medioevo che attendeva con ansia e tormento la fine del mondo dell'anno 1000 e questi tempi nostri burrascosi, la peste di allora e il Covid compagno di questi ultimi anni, se ne possono trovare, echi, rimandi, ritorni, ma sono più che altro evocazioni lanciate e lasciate lì a macerare in quest'agorà che rimane molto formale e cromatica e dove, soprattutto il linguaggio, arcaico, maccheronico, vetusto, si scontra inevitabilmente e frigge e confligge con la visione della retina che ci riporta un universo, pulito, lineare, di un futuro interstellare e intergalattico che le maglie con il triangolino sul petto da Star Trek ci raccontano. Insomma non vi aspettate di ritrovare alcuna atmosfera de “L'Armata Brancaleone” così come l'abbiamo conosciuta e amata che qui diventa scomposta, decomposta, frantumata, digerita, rifatta, riassemblata, certamente geneticamente modificata. Come accadde con il “Natale in Casa Cupiello” di Latella che irritò il pubblico.
All'orecchio arrivano le sillabe che furono di Vittorio Gassman e Gianmaria Volontè e Enrico Maria Salerno (i paragoni sarebbero irrispettosi), maccheroniche, volgari, materiali, viscerali, mentre l'occhio vede le Guerre Stellari; il risultato risulta non credibile, complicato da seguire, faticoso, come cercare di infilare un pezzo del puzzle a forza dove evidentemente non può trovare il suo spazio naturale di apertura. Un giusto esperimento ma irrisolto. A questo poi aggiungiamoci le “trovate” alle quali ci ha sempre abituato Latini (che è e rimane un artista della scena, questo è bene sottolinearlo): i sette attori che scendono dalla graticcia su una trave-altalena come i costruttori (spesso italo-americani) dei grattacieli immortalati nelle foto in bianco e nero con sotto una New York in divenire (celebre e iconica l'immagine “Men at lunch” scattata da Charles Ebbets del '32 sopra il Rockefeller Center), oppure l'innesto finale (cifra latiniana alla quale non rinuncia mai) con il regista che si cala nei panni di Petrolini in versione illusionista alla David Copperfield. Il Teatro Metastasio ha aperto la nuova stagione con questa produzione mantenendo ancora in platea i tavolini da Cafè Chantant. Tra gli attori (Elena Bucci, lo stesso Latini, Claudia Marsicano, Ciro Masella, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso, Marco Vergani), che non sembrano mai pienamente a loro agio dovendosi districare tra un testo che punta altrove e una scena che mira lontano, ma tutti coesi in questa avventura tentennante, sottolineiamo la prova di Pennacchia (con la maglia gialla del capitano Kirk) unico ruolo, forse, che ancora possiede e mantiene un certo gusto agrodolce, quella fervida sensazione di dramma e comico propria della commedia all'italiana. Del film cult non è rimasta che la scorza e il lessico che, come evidenziato, stonava e contrastava con la visione.
Dove è andata la farsa dissacrante? E dove la goliardia espressa dall'intramontabile must monicelliano? Dove è andata la beffa e lo sberleffo, dove il caustico, la redenzione, il paradosso, dove quella carnalità vitale e disperata, in celluloide espressa e manifesta e qui sul palco solo mimata? E' rimasto il barocchismo dialettico che però mal si sposa con l'ambientazione spaziale. L'Armata Brancaleone senza i costumi originali già perde moltissimo del suo immaginario e della sua potenza e poetica evocativa. Tra le cose da tenere e salvare la scena accattivante di Luca Baldini e le luci calde di Max Mugnai. Star Trek (ab)batte Monicelli, come l'invasione aliena di “Indipendent Day”, come il videogioco “Space Invaders” dove tutto è bombardato, destrutturato, imploso. L'iperuranio ha spazzato via, mangiandoselo a morsi, con razzi missile e circuiti di mille valvole, con la cibernetica e l'aria cosmica, con i raggi laser e gli scudi termici, il Medioevo. Rimangono intatte riserve e dubbi e perplessità e ci sfugge il senso ultimo dell'intera operazione. Straniante.
Tommaso Chimenti 23/10/2021
Foto: Guido Mencari