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Antonio Salines è Barney Panofsky al Teatro Belli. Ancora una volta, egregiamente.

L’attore, oggi ottantenne, torna a vestire i panni di un anziano produttore televisivo, di un uomo dalla vita piena, dal passato complicato e dal presente confusionario. “La versione di Barney” di Massimo Vincenzi è la trasposizione teatrale dell’omonimo romanzo di Mordecai Richler; una riscrittura sapientemente affidata alla regia di Carlo Emilio Lerici e alle indiscusse doti interpretative di un artista che calca le scene da quando aveva appena quattro anni. Un’opera di successo che torna, al Teatro Belli di Roma, e che sarà in scena fino al 22 maggio.
Sul palco si scorge, in penombra, Antonio Salines. È solo col suo personaggio e la totale identificazione si fa lampante dal primo istante, tra interprete e interpretato non v’è distanza. La scenografia è essenziale, ordinaria, ripropone un interno, SALINES3che potrebbe rappresentare un’abitazione qualsiasi, e i cui unici elementi di arredo sono una poltrona e un appendiabiti. È qui, tra questi pochi elementi che Barney si muove, che passa le sue giornate, scandite dal contorto riemergere delle sue memorie. È qui che vaga, attendendo il passare delle ore, è qui che racconta la sua vita presente attraverso stralci della sua vita passata. Un personaggio particolare, dalla lettura apparentemente semplice, e che però riesce a instillare curiosità nello spettatore per l’intera durata dello spettacolo.
Vuole scrivere la sua biografia, Barney. Vuole scrivere della sua vita per distanziarsi in maniera chiara e definitiva da quell’episodio tragico che lo ha tristemente segnato: la morte del suo amico Boogie. E allora si tuffa in un mare di parole, in un flusso di ricordi, in una cascata di avvenimenti che tenta con sapiente calma di ricostruire, di rendere facilmente leggibili a se stesso prima che agli altri. Un monologo ininterrotto, in cui l’attimo presente e quello passato non conoscono distanze, in cui la mente di Barney diventa sceneggiatrice di vita, richiamando alla sua memoria particolari, conversazioni, sguardi di un tempo che fu. E che ora, inesorabilmente, non è più.
In proiezione, i video del regista Enzo Aronica accompagnano il racconto: le immagini riprodotte sulla scena, alle spalle di Salines, sono per il pubblico visiva manifestazione delle recondite memorie del nostro Barney. Le mogli, il padre, Boogie. La sua mente affollata fa fatica col presente, ma non cancella il passato.
E così, pian piano, condotti dall’apparente quiete di chi in realtà rallenta per evitare dimenticanze, diveniamo privilegiati conoscitori dei momenti salienti della vita di quest’uomo. Una figura umana ambivalente, ambigua, capace di suscitare parallelamente sentimenti di tenerezza e di disapprovazione.
SALINES2È una vita fatta di eccessi, e di amore. O forse è la vita di un amore perduto che l’ha portato all’eccesso. È la vita di chi ha perso un amico caro, fidato, compagno imprescindibile di un periodo di vita dolce e dissennato. È la vita di Barney – che per tutti è il signor Panofsky, produttore fortunato di tv spazzatura – che nella sua intimità continua a essere semplicemente Barney, un uomo cui è mancata la capacità di saper custodire un amore, un uomo che deve difendersi dal dolore di aver perso qualcuno e al contempo dall’accusa di esser stato la causa di tale perdita.
Un dramma umano che talvolta riesce a far sorgere sorrisi, portando ancora una volta in scena quel sottile legame tra eventi drammatici e umoristici di cui la letteratura si è tanto curata.
Lo spettacolo è Salines, è i suoi respiri, i suoi movimenti. Un monologo efficace, che forse risente solo della lunga durata: un’ora e mezza che – in uno spettacolo che può definirsi totalmente ed esclusivamente “di parola” – sembra moltiplicarsi e divenire eccessiva.

Anastasia Griffini 19/05/2016

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