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“Antigone" di Federico Tiezzi: l'eterno scontro tra legge naturale e legge di Stato

Federico Tiezzi firma la regia di “Antigone”, tragedia sofoclea in scena al Teatro Argentina fino al 29 marzo. Nei ruoli dei protagonisti Lucrezia Guidone e Sandro Lombardi: l’una è Antigone, l’eroina che incarna i valori religiosi e familiari, l’altro è Creonte, portavoce e difensore della legge umana e dell’ordine pubblico. Il progetto si inserisce nel trittico pensato per il Teatro di Roma avente come fili conduttori gli attori principali e le tematiche legate alla famiglia, ai suoi conflitti, alle sue ombre. Nel 2016 è stata la volta del “Calderón” di Pasolini, nel 2020 la trilogia culminerà con “La tempesta” di Shakespeare, passando per questo capolavoro immortale della Grecia antica.

Il regista ambienta la vicenda in una sorta di ospedale-obitorio dove si muove anche il coro, composto da cinque morti da poco risorti, tornati in vita per obbedire al sovrano di Tebe. Lo scontro che pone in essere Sofocle in “Antigone” è profondo e insanabile: troppo distanti e in contrasto le posizioni dei due protagonisti. Antigone è il doppio di Creonte, il suo contrario necessario. Su di lui pesa l’imperativo categorico della sovranità delle leggi, mentre la giovane è pervasa da uno spirito di ribellione, di rivolta, che prende le mosse dal suo senso di giustizia e di fratellanza, nel rispetto del ghenos familiare e delle leggi divine. Vuole a tutti i costi dare al fratello Polinice una degna sepoltura, che il re ha espressamente vietato con un editto, per punire il ragazzo di essersi mosso contro la città.

«Non mi vergogno di essere diversa», urla Antigone alla sorella Ismene (Federica Rossellini), per sua natura meno combattiva, che rifiuta di aiutarla nell’impresa per due motivi: è un atto vietato e, soprattutto, non è un’azione per donne.

La regia di Tiezzi è attenta ad esaltare questa complessa trama sotterranea, che va oltre la vicenda della sepoltura di Polinice. Perché il fatto che ad andare contro il potere e contro le leggi sia una donna rende il tutto ancora più grave. Creonte lo sottolinea diverse volte. «Bisogna difendere l’ordine costituito e non permettere che le donne abbiano la meglio su di noi. Se proprio si deve perdere, meglio essere vinti dalla mano di un maschio, senza che si dica in giro che siamo inferiori alle femmine», dice al figlio Emone (Ivan Alovisio). Lo mette in guardia dal pericolo di diventare «schiavo di una femmina».

Creonte è un sovrano autoritario e un uomo gelido, sicuro di sé, si rivolge ad Antigone con disprezzo. Il suo tono, però, come una parabole discendente, muta due volte nella seconda parte della tragedia: la prima volta nel colloquio con Tiresia. Questo ruolo solitamente affidato ad uomini è qui interpretato daantigone 2 Francesca Benedetti: il suo è un Tiresia dalle sfumature controverse, ambigue, erotiche, accompagnato in scena da una specie di ‘toy boy’. Messo dinanzi alle previsioni nefaste dell’indovino la voce di Creonte si ammorbidisce, si lascia andare a dubbi, perplessità e ripensamenti. E la sua voce, così come la sua anima, si spezza nuovamente dinanzi ai cadaveri del figlio e della moglie Euridice (Francesca Mazza): l’uno compie il gesto estremo dopo aver visto la sua amata Antigone impiccata e l’altra non regge al dolore per la perdita di Emone. A questo punto quello che ci troviamo dinanzi è un Creonte completamente solo, fuori di sé, ma consapevole e lucido: «Non mi libererò mai dalle mie colpe, vi ho uccisi io», dice portandosi le mani al viso e coprendosi gli occhi, lui che fino a quel momento è stato cieco. E la mente torna alla tragica fine di Edipo che si trafisse gli occhi con la spilla di Giocasta, sua moglie, quando scoprì che era in realtà sua madre. 

Oltre all'invisibile guerra tra i sessi, Federico Tiezzi pone l'attenzione anche ad un altro concetto, di cui la storia di Antigone è la prova: le colpe dei padri ricadono sui figli. Lei e i suoi fratelli scontano i peccati della stirpe dei Labdacidi in una catena senza fine di orrori e tragedie. Lo dice lei stessa ad Ismene quando apprende della morte di Eteocle e Polinice, reciprocamente uccisi trafitti l'uno dalla spada dell'altro. Dunque è preoccupata per le loro sorti, di ciò che accadrà loro, uniche rimaste. Per questo per quasi tutta la seconda parte della tragedia sul fondo si stagliano cinque scheletri in posa (Labdaco, Laio, Edipo, Giocasta, Eteocle), come fossero in attesa di essere raggiunti dagli altri componenti della famiglia. E proprio uno scheletro porta sulle spalle Antigone mentre si incammina verso la roccia che costituirà la sua tomba: la sua famiglia è stato il suo fardello, è stata la sua inconsapevole colpa da scontare con la morte.

In questo circolo vizioso e viziato sembrano dare una forma di speranza le figure vestite di giallo e con tanto di idranti (sembrano venute dal futuro) che chiudono lo spettacolo lavando il pavimento coperto di polvere rossa: ci penseranno (forse) i posteri a spazzare via il sangue versato dai padri, a pulire la storia dalle loro colpe e dalle loro nefandezze.

Giuseppina Dente 05/03/2018

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