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Tebe diventa Napoli per l'"Anfitrione" esuberante della Ludovico

BARI – Affrontare il Mito, oggi. Impresa che può facilmente scadere negli stilemi e nei cliché pomposi ed aulici. Per entrare nel Mito, e anche dissacrarlo per creare empatia e portarlo sul terreno comune della contemporaneità, si può anche traslare, tradire, scomporre, disossare mantenendone i pilastri necessari e fondamentali. Esperimento che pare riuscito con il progetto colorato e brioso dell'“Anfitrione” di Teresa Ludovico, produzione Teatri di Bari. Già perché la regista pugliese è riuscita, con un giocoso e gioioso concentrato, prendendo a prestito da Plauto come da Moliere, con l'aggiunta di inserti shakespeariani, e tanti altri ingredienti a diffondere un pastiche dai tanti sapori ben amalgamati e mantecati in un impasto felice e feroce, un mix caldo e spumeggiante, frizzante e croccante.teresa ludovico.jpg

La colonna vertebrale del testo vede Giove prendere le fattezze di Anfitrione per poter godere delle grazie della moglie di quest'ultimo, Alcmena, dall'unione con la quale nascerà Ercole. Questo lo scarno sunto. Ma come i cerchi concentrici nel taglio degli alberi, le stratificazioni di questa messinscena sono un canto e un omaggio al teatro, ai suoi misteri, ai suoi inganni, alle sue didascalie connesse e nascoste, per un godibile, pennellato affresco in salsa trash. Anfitrione viene trasformato in un boss della Camorra che pare uscito dai racconti di Saviano o dalla realtà di Forcella o dalla Sanità; il suo gergo di strada, ruvido e pastoso, violento, acre e suburriano, ci riporta alla Napoli gomorriana (ci scappa anche un “Sta senz pensieri”, citazione e cifra stilistica), con tanto di gang, capibanda, sparatorie, paranze e un attentato in pizzeria che tanto ci ha ricordato quello del '07 a Duisburg ai danni di esponenti ndranghetisti.

Di fondo si potrebbe dire che questa versione dell'“Anfitrione” sia anche un testo “femminista”, già perché gli uomini presenti, dei e mortali che siano, non ne escono bene, anzi: arroganti, aggressivi, predatori, irrispettosi, stupratori, ingannevoli, traditori, bugiardi, meschini, assassini che hanno soltanto in mente il possesso della donna, trattata come oggetto. Le donne invece, anche troppo sottotono, non possono far altro che accettare queste regole imposte dal sistema maschilista e machista, bambole, burattini alla mercé dei loro squallidi e viscidi Mangiafoco.

Anfitrione castIl napoletano, con tutte le sue sfumature da slang e venature, ora melodiose adesso aspre, ora poetiche adesso acidi turpiloqui, è il tappeto sonoro sul quale s'incastra il barese per un mash up che fa dell'estro e della generosità attoriale le assi portanti di tutta la drammaturgia. Tebe diventa Napoli. Tutto è basato sul doppio, fin dall'inizio quando immensi specchi fronteggiano il pubblico, come a dirci che quello che sta di lì a poco per succedere ci riguarderà molto da vicino e ci toccherà tutti nel profondo. Tutto si giostra sull'alternanza, sull'antitesi; doppi sono i personaggi, Anfitrione e il suo fidato scagnozzo Sosia dei quali prendono le fisionomie Giove e suo figlio Mercurio, in equilibrio tra tragedia e Commedia (anche dell'Arte), tra l'uomo, e la sua concezione testosteronica di vita, e la donna, tra il mondo degli uomini e quello degli dei, tra il vero e la finzione. Siamo di fronte ad un'affascinante e coinvolgente sceneggiata napoletana con le sue canzoni immerse nel giuramento dell'amore eterno e la malavita, tra melodramma meroliano strappacuore (più Nino D'Angelo che Gigi D'Alessio) e serenate smodate alla Maria Nazionale (la folgorante e passionale hit “Te voglio troppo bene” di Gianni Celeste e “Tutto a posto” di Frank & Eddy Scampia).

“Anfitrione” della Ludovico è un varietà pop effervescente tendente al musical, con accenni di coreografia e un matrimonio finale gitano in stile Kusturica &ANFITRIONE Bregovic, e un musicista in scena (brillante e funzionale Michele Jamil Marzella) a marchiare a fuoco e sottolineare con vigore, con trombone e radong, gli stati d'animo fluttuanti di questi dei che giocano a dadi con gli uomini, beffandoli e gabbandoli. Ironia diffusa e sensualità sparsa in un cast affiatato e fisico per un'opera corale dove esplode per forza dirompente di Giovanni Serratore/Giove nel trucco pesante da manga nipponico, gonna, anfibi e occhiali Ray Ban a goccia d'ordinanza, dove emerge la corposità gagliarda e cafonal di Michele Schiano di Cola/Anfitrione, dove giganteggiano le suadenti mosse di Alessandro Lussiana/Mercurio istrionico puk-ragazzo di vita seducente con lingua alla Mick Jagger, movenze sinuose alla Iggy Pop e, con i grappoli d'uva in testa, ci ha ricordato “Il ragazzo morso da un ramarro” di Caravaggio, dove sprizza la comicità naturale di Michele Cipriani/Sosia, spalla perfetta per l'assist beffardo.

Tommaso Chimenti 18/03/2018

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