Anche se edificato sotto l’ideologia dittatoriale fascista, il Palazzo della Civiltà Italiana, nel quartiere EUR a Roma, fa parte di quegli edifici riconosciuti di “interesse culturale”. Sul travertino della facciata campeggia la scritta “Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori”. Per la sua conformazione geografica, adagiata nel mare Mediterraneo, come sua culla, l’estensione della nostra Penisola le conferisce una varietà di paesaggi, di climi, di culture, che non ha eguali in nessun altro Paese Europeo. Il Mediterraneo è la nostra origine e la nostra realtà, anche quando rappresenta quella barriera pericolosa, solcata da imbarcazioni di fortuna, colme di gente che ha bisogno di una speranza, oltre la miseria. Il tema del viaggio è nostro e ci è caro. Forse anche per questo, "Anamoni", lo spettacolo di teatrodanza ideato e realizzato da Lisa Rosamilia, sonorizzato da Michele Sganga, si presenta come un porto, un appiglio, una rete, nell’attesa di qualcosa: un uomo, un viaggio, una speranza.
Il Teatro Studio Uno in un quartiere ancora salvo – non si sa per quanto– dalla gentrificazione (Tor Pignattara), diventa un porto sicuro dove mettere in scena quelle corde che avvolgono, a volte stritolano, altre abbandonano, il corpo di Lisa Rosamilia, ballerina e interprete. Per i primi minuti, protagonista è la scenografia che ha ideato: un muro, interrotto da una piccola porticina, dove accanto - da una fessura - si intravedono le onde di un mare (seppur virtuale). Intorno, muri fatti di corde, fessure ricavate tra lacci, funi, cavi intrecciati, che una Penelope moderna, disfa e ricompone. Non si sa chi e cosa sta aspettando, ma dai movimenti, rapidi, come dei sussulti, altre volte sofferti, incerti e inquieti, un senso di ansia ci coglie, di precarietà e di aneliti che si alimentano con il tempo che passa, e mai sono realizzati.
Le sue mani sfidano le barriere intricate, poi, dalla porticina, si presenta sulla scena. Il suo corpo dialoga con la struttura, quasi un “habitat”, come quelli di Rezza-Mastrella. Ma qui non ci sono giochi di parole, ma solo il corpo e gli arti, indispensabili per afferrare, lasciarsi dondolare a peso morto, riprendere energie, invilupparvisi e liberarsi, di nuovo.
La dimensione marittima, oltre dai cordoni, come reti da pesca o attracchi di barche al porto, rieccheggia dal mare e dalla sabbia, accumulata accanto alla parete, che con un calcio Rosamilia sparge sul resto del palco. Sonorizzazioni elettro acustiche ci destinano in una temporalità indefinita, in bilico tra mitologia e realtà presente. La bravura dell’artista è quel suo “vivificare l’oggetto”, la parete, funi e cavi, creare un dialogo metaforico che mette in gioco il senso di appartenenza che può diventare prigione, l’attesa, il turbamento amoroso, la libertà, la casa, il viaggio e la salvezza. Si direbbe un quadro vivente.
L’unico suono umano è un grido, a metà tra liberazione e dolore.
Un esperimento pregno di poesia che dell’indefinito si nutre, toccando tutte le corde care a una sensibilità un po’ marinaia, come siamo noi, mediterranei, dai secoli dei secoli.
“E il naufragar m’è dolce in questo mare”.
Agnese Comelli 21/04/2017