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L’Aminta di Antonio Latella è una poesia rock sulle metamorfosi dell’amore

ROMA – Un faro mobile a luce calda che ruota lento su un binario circolare di colore giallo disegna il perimetro entro cui si dipanano i fili di un intreccio pastorale retto per intero sull’uso variato della parola: poetica, disturbante, evocativa. Agli occhi di qualcuno potrebbe sembrare un’autentica follia mettere in scena un classico della poesia teatrale (concepito nella primavera del 1573, in piena epoca di Controriforma, per la corte ferrarese degli Estensi), e della nostra letteratura tout court, usandone lo stesso linguaggio: ebbene l’allestimento di Aminta, favola boschereccia del Tasso, nelle mani di Antonio Latella (in scena al Teatro India), regista campano di fama internazionale e direttore della Biennale di Venezia Teatro, fa a pezzi questa certezza. La scenografia (di Giuseppe Stellato) è essenziale, semplicemente perché – ci si accorge in corso d’opera – non serve affatto: sono i versi, endecasillabi e settenari in rime libere, a costruire la scena in un testo destinato in origine alla rappresentazione teatrale, di cui l’ultima significativa che si rammenti risale alla versione fiabesca e silvestre di Luca Ronconi sul palcoscenico del Teatro Argentina nell’aprile del 1994, in un’atmosfera dal gusto cinquecentesco dominata da cipressi, balestre e costumi ricamati, con cui questa regia si pone inevitabilmente in una dialettica storica, e non certo di filiazione.

Cosa può dirci ancora la lingua di Tasso? A quattro secoli di distanza occorre tradurre il classico, non solo dal punto di vista della drammaturgia (ridotta dall’operazione fedele di Linda Dalisi) da cinque a due atti, bensì esaltare la pregnanza semantica di quel verso, la sua carica emotiva, il valore performativo, o meglio illuminarlo. Ed è per questo che a ogni turno di parola il faro riprende il suo giro, mette in luce certi volti, segna come le lancette di un orologio lo scorrere di un tempo che è, però, proiezione interiore. Ombre e luci, nel loro gioco speculare (opera di Simone De Angelis), drammatizzano il giorno e la notte dei sentimenti che entrano nel flusso sonoro del discorso, abitano la voce degli attori ed esportano la poesia al di fuori del suo bacino letterario sconfinando in recinto simbolico. E all’interno del cerchio (il sole) stanno tre microfoni con asta, diretti e gestiti dagli interpreti della Compagnia Stabilemobile, elegantissimi in abiti contemporanei (costumi di Graziella Pepe), eccetto la ninfa che, venuta in anfibi, resta di spalle mostrando di tanto in tanto la sua faccia nascosta, come la luna alla terra. Quattro, dunque, gli attori deputati alla celebrazione di questo rito frontale: recitare una prigione dell’anima, i tormenti e le ferite imposti dalle conseguenze di un amore infelice nel quale emergono in nuce le inquietudini che caratterizzano la biografia stessa dell’autore (ravvisabile nella figura del più adulto e saggio Tirsi che tempera ossessivamente la matita, il dardo che “imprime amore dovunque fiede”).

È proprio Amore (Michelangelo Dalisi) il primo a inaugurare la recita nel Prologo e sui significati dell’amore, della sofferenza o del “piacere che gusta un cor amato riamando”, fulcro problematico della messinscena, s’interrogano tutti i personaggi coinvolti: il giovane pastore Aminta (Emanuele Turetta) ama non corrisposto la ninfa Silvia (Matilde Vigna), refrattaria al suo corteggiamento. Questi ultimi con la coppia di loro consiglieri Tirsi-Dafne (interpretata da Giuliana Bianca Vigogna), in un incrocio che strizza l’occhio a Le relazioni pericolose, compongono il quartetto di una geometria passionale in cui ogni personaggio adombra la sagoma di un altro. Aminta è anche il satiro, il nunzio ed il pastore del finale, Silvia è anche la messaggera Nerina e Tirsi è anche il Coro, Amore e nell’epilogo sua madre Venere. Lo scambio di ruoli e le metamorfosi dell’amore a esso corrisposte (cortese, salvifico, animalesco, struggente o ingannevole) è evidente quando, nella scena in cui Silvia è legata a un albero dal satiro che sta per usarle violenza, il colpo di scena subisce uno slittamento di segno, perché è la ninfa che compie il gesto di denudare e immobilizzare sadicamente – in un’immagine che ricorda il martirio di San Sebastiano trafitto – il fauno crudele, crocefiggendolo al petto con l’ausilio delle aste portamicrofono in riverbero fino alla dissolvenza del primo buio in scena.

Identità doppie che si sovrappongono nell’eclissi rovesciata di un’Arcadia ormai troppo lontana (che è anche l’età arcadica di una forma teatrale nuda che con la forza della parola significante e ritmata basta a se stessa, dove l’azione è ridotta al grado zero e si percepisce indirettamente dalla diegesi scenica), in cui i personaggi divengono satellite (anche in virtù dei loro movimenti, curati da Francesco Manetti) di una tessitura drammatica che conquista i sensi dello spettatore, spezza ogni idillio e induce alla riflessione sulla complessità dei rapporti amorosi: ‘Dove si impara l’arte d’amare?’, l’interrogativo che resta sospeso per tutto il secondo atto e reiterato grazie all’esecuzione dal vivo della musica dark rock che destruttura i parametri del paradiso bucolico dipinto dal Tasso e porta ai massimi livelli l’ansia di una catastrofe che non avviene. Silvia non è stata sbranata dai lupi, Aminta che la credeva morta ha sì tentato il suicidio gettandosi da un dirupo ma si è miracolosamente salvato. Lo spartiacque del confine tra morte apparente ed equivoco (oppure, in altre parole, il topos di una finzione della morte, come in Romeo e Giulietta) è segnato dal passaggio dall’intonazione del madrigale Lamento della ninfa di Monteverdi alle note urlate e perturbanti di Rid of me di PJ Harvey e Vitamin C dei Can (per le scelte musicali firmate da Franco Visioli) che costituiscono un appello corale alla platea, più volte chiamata in causa (lanciando verso di essa il plettro della chitarra elettrica, o tendendole il microfono). Un cortocircuito di tensioni in atto che si sciolgono nel lieto fine in cui i due si ricongiungono dopo le peripezie vissute, scelgono finalmente di amarsi, pur consapevoli di quanto l’amore possa sfuggirci tra le dita e in un attimo sprofondare nell’abisso tragico.

Una produzione di Stabilemobile in collaborazione con AMAT e Comune di Macerata e Esanatoglia, sostenuta da MIBACT e Regione Marche nell’ambito del progetto “Marcheinvita. Lo spettacolo dal vivo per la rinascita del sisma”.

Visto il 25 gennaio 2019.

Sabrina Sabatino 27/01/2019